Sono trascorsi dieci lunghi anni da quell’afoso 26 luglio 2012. Il sequestro dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico e i primi arresti, fra i quali quello dell’ultraottantenne Emilio Riva, segnano l’exploit dell’inchiesta “Ambiente svenduto”. I carabinieri del Noe mettono i sigilli dando esecuzione al decreto emesso dal gip del Tribunale di Taranto Patrizia Todisco su richiesta della Procura. In realtà l’Ilva – come si chiamava all’epoca lo stabilimento – ottiene la facoltà d’uso dal Tribunale del Riesame. Il colpo inferto al gigante dai piedi d’argilla è pesante, l’area a caldo è il cuore dello stabilimento. Pesanti sono anche le contestazioni ai vertici della proprietà e ai livelli intermedi del management dell’acciaieria: disastro ambientale doloso. Comincia così un’inchiesta a puntate della Procura di Taranto – sul cliché dell’inchiesta di Avetrana – dopo i primi arresti, a novembre dello stesso anno scatta l’esecuzione delle misure cautelari anche per altri esponenti della famiglia Riva e per alcuni dirigenti, a maggio dell’anno successivo di alcuni personaggi politici, a settembre dei fiduciari dei Riva, i cosiddetti dirigenti ombra che poi invisibili non erano perché avevano contratti di consulenze e nello stabilimento li vedevano tutti, come emerso dal processo. Ma sin dai primi giorni dell’inchiesta è il sequestro degli impianti a destare preoccupazione nel mondo del lavoro, in quello sindacale e imprenditoriale di tutta Italia, perché mette a rischio il futuro della più grande acciaieria d’Europa. Poche ore dopo il sequestro, i lavoratori del Siderurgico scendono in strada. Dallo stabilimento arriva in città un imponente corteo dei lavoratori formatosi davanti ai cancelli. Agli operai in uscita alla fine del turno pomeridiano si uniscono i colleghi in entrata. L’azienda dispone le comandate. Il corteo raggiunge la prefettura. La città resta bloccata per ore. Per alcuni giorni presidiano le principali strade d’ingresso al capoluogo, bloccando auto e camion e lasciando passare solo mezzi di soccorso o con persone anziane. Scioperi e cortei continuano nei giorni successivi e il 2 agosto durante il comizio dei principali leader nazionali di Cgil, Cisl e Uil e dei metalmeccanici Fim, Fiom e Uilm tengono un comizio in piazza della Vittoria rimasto famoso per il blitz di alcuni manifestanti che si fanno largo tra la folla a bordo un Apecar. Alcuni salgono sul palco e interrompono il comizio, mentre altri staccano i fili dell’impianto di amplificazione. La tensione è altissima. Maurizio Landini e gli altri massimi esponenti delle sigle sindacali lasciano la piazza sotto scorta. Malgrado i grandi cortei dei lavoratori preoccupati per il futuro del loro posto di lavoro la città non si schiera con loro. Il gigante dai piedi d’argilla è il mostro che inquina e quando i tarantini manifestano lo fanno per la salute e l’ambiente contro la fabbrica che inquina e provoca malattie e morte. Fra i tarantini e la fabbrica non c’è più il rapporto degli anni ’90 quando i cortei protestavano contro i tagli della produzione – e quindi della forza lavoro - da Bruxelles. L’inchiesta sfocia in un processo contro 47 imputati di cui 44 persone fisiche e tre giuridiche. La pubblica accusa contesta l’ipotesi di disastro ambientale doloso nei confronti di 16 imputati (inizialmente 17 con Emilio Riva deceduto ad aprile 2014) più altre violazioni delle norme ambientali, l’omissione colposa o dolosa delle misure necessarie per impedire emissioni di polveri, gas, fumi e vapori inquinanti. Alcuni capi d’imputazione vengono cancellati dalla prescrizione già durante il processo di primo grado e altri rischiano di fare la stessa fine. Solo un imputato rinuncia alla prescrizione, il professor Giorgio Assennato, ex direttore generale dell’Arpa Puglia, estraneo ai reati ambientali e accusato di favoreggiamento per avere, secondo l’accusa, mentito durante un interrogatorio per aiutare il presidente della Regione Puglia Nichi Vendola, coinvolto nell’indagine, a farla franca. Una scelta costatagli una condanna a due anni di reclusione, il doppio della richiesta del pm. A distanza di dieci anni dal sequestro dell’area a caldo le diverse parti processuali – accusa, difesa e parti civili - attendono il deposito delle motivazioni della sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Taranto. Il dibattimento è terminato il 20 maggio del 2021 e nonostante gli anni trascorsi da quanto la vicenda è approdata in aula non si può certo parlare di lentezza della macchina giudiziaria considerando la frequenza delle udienze, tenutesi fino a tre a settimana alcune delle quali finite la sera. Ben 330 complessivamente nel corso delle quali sono stati sentiti circa duecento testimoni. Una interruzione di oltre tre mesi è stata imposta dal lockdown e dal Covid. Ma, soprattutto, a distanza di dieci anni dal sequestro i sei impianti dell’area a caldo restano ancora “sotto chiave”, dal punto di vista produttivo la fabbrica marcia a ritmo ridotto. Moltissimi lavoratori sono in cassa integrazione. I commissari Ilva in amministrazione straordinaria, società proprietaria degli impianti, chiedono il dissequestro ma la Corte d’Assise, la stessa che ha disposto la confisca nel processo sul disastro ambientale (presidente Stefania D’Errico, a latere il giudice togato Fulvia Misserini e sei giudici popolari), respinge la richiesta: “Devono dirsi ancora sussistenti ed attuali i presupposti del sequestro preventivo già disposto dal gip”. E’ scritto nell’ordinanza. Il rigetto finora non è stato impugnato, forse la gestione commissariale non presenterà ricorso. La confisca cosiddetta facoltativa resta, chissà fino a quando. Il gigante dai piedi di argilla barcolla ma resta in piedi soltanto grazie all’intervento dello Stato che entra nella compagine societaria dando vita ad Acciaierie d’Italia. Cambia la denominazione ma i problemi rimangono con una grande incertezza sul futuro.
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