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La strategia del Cremlino
25 Agosto 2023 - 10:14
di Carmine Pinto*
La guerra in Ucraina è un conflitto globale. Non solo per gli schieramenti in campo, le democrazie occidentali-liberali contro la Russia e i suoi amici. Quanto per la concreta politica del presidente russo in buona parte delle aree regionali africane ed asiatiche. Se Putin ha inviato l’esercito in Ucraina, dopo i troll e gli aiuti ai suoi amici occidentali, nel resto del mondo è al centro di una vera e propria internazionale. Una impressionante rete con una visione globale, oggi prepotentemente balzata all’ordine del giorno, dopo il golpe in Niger.
Si tratta di una aggregazione autocratica, fatta di regimi, dittature, partiti, attori mediatici, uniti dall’amicizia-alleanza con Putin e da una non scontata e non sempre altrettanto forte vicinanza alla Cina. Come si è visto in Africa, qualche giorno fa: con un colpo di stato si è destituito il presidente nigeriano Bazoum. A parte le manifestazioni orchestrate contro l’ambasciata francese, si è compresa la simpatia-amicizia dei golpisti con i russi.
Il capo di Wagner ha subito confermato la sua disponibilità a sostenere il golpe, ma Putin in Africa era giunto da molto tempo. Ci sono due esempi che mostrano il suo ruolo nella generale strategia di espansione continentale con i mercenari. In Libia, con il sostegno militare al generale Khalifa Hafar, in Mali con l’intervento a protezione (e non solo) del partito al potere. Wagner ha poi agito in altri paesi del continente, mentre il presidente introduceva nella sua visione diplomatica il summit permanente Russia-Africa. Una istituzionale internazionale funzionale ad ampliare su piani molteplici e non solo militari il suo ruolo nel continente.
Dopo la guerra Putin è ancora in Africa, ma a ranghi ridotti. Quando tre giorni fa è andato di nuovo in scena il summit, c’erano solo 17 capi di stato, rispetto ai 43 del 2019. Se Prigozhin resta in campo, e Putin pure, il suo ruolo è sicuramente più debole. I leader africani sanno misurare rapporti di forze e convenienze, non è scontata la loro disponibilità ad esporsi per un presidente in parte sconfitto, in una guerra di cui appare compromesso l’esito. Insomma, per ora, sono militari, golpisti e governi inverti quelli che restano in piedi a fianco alla Russia
Più solida appare la posizione putiniana nel vicino Oriente. In questo scenario, due governi gli sono saldamente alleati. Il primo è il dittatore siriano Assad. Messo in crisi dalle diverse insurrezioni del decennio passato, a partire dal 2015 è stato salvato dall’intervento dei regolari e dei mercenari russi. Così Putin ha ottenuto un vero e proprio successo strategico nazionale, trasformando la Siria in un suo protettorato e creando una roccaforte in una delle aree strategiche del pianeta.
Con l’intervento si rese credibile con il vero regime della regione, quello iraniano. Gli Ayatollah sono al suo fianco, direttamente coinvolti con l’invio di droni, arei senza pilota, munizioni e missili. Hanno scommesso sulla debolezza dell’Occidente, soprattutto dopo la repressione delle manifestazioni libertarie dello scorso anno. Nonostante questo, come si è registrato per l’azione del governo turco sempre più amico di Kiev, quanto per buona parte dei paesi arabi, compreso i sauditi. Possono farci affari, ma difficilmente si schierano con chi sta perdendo o è isolato. Il successo di Putin, per quanto importante resta parziale e oramai limitato al pur temibile due Damasco-Teheran.
Certo, se Assad è isolato e gli iraniani rischiano di perdere l’accordo con la UE del 2015, è America latina dove Putin ha ottenuto di più. In nessun altro consesso internazionale, a partire dalle stesse Nazioni Unite, il presidente russo poteva incassare un documento come quello con cui si è concluso il 18 luglio il vertice tra la UE e i paesi latino-americani. Nel testo ci si è limitati a dichiarare una blanda e penosa preoccupazione per la guerra in Ucraina, dopo discussioni a tratti surreali.
A fianco di Putin ci sono le tre dittature più brutali dell’America Latina: Cuba, Venezuela e Nicaragua. In dimensioni diverse, i regimi castro-chavisti sono protagonisti di repressioni di massa, emigrazioni ed esili forzati di milioni di persone, spesso con veri e propri drammi umanitari o azioni di una ferocia inimmaginabile nel mondo occidentale. Godono di un certo lasciapassare mediatico-politico che da sempre ha favorito questo tipo di regimi latini, di cui il putinismo è ora interlocutore (insieme a un certo establishment intellettuale e occidentale) e sostenitore di primo ordine.
Il presidente russo in America latina ha pure una opzione neutralista, che va dal presidente brasiliano Lula al colombiano Petro, legati al foro di Sao Paulo fondato da Castro. Una istituzione che fa del terzismo neo-pacifista uno dei suoi caratteri distintivi. Infine, insieme a qualche regime asiatico, come quello nord-coreano (legato però ai cinesi), Putin ha sempre coinvolto una fitta rete di partiti, giornalisti, intellettuali occidentali, pronti a schierarsi per la bandiera di una autocrazia sociale ed efficiente. Uno schieramento però oggi in piena rotta, dopo la formazione di una coalizione internazionale liberale filo ucraina e la condanna generale dell’invasione nei paesi liberi.
L’internazionale putiniana è ammaccata ma non sconfitta. Certo, non va confusa con l’Unione Sovietica, con i miti del Socialismo reale e gli schemi della Guerra fredda. Non c’è un progetto ideologico né un Patto di Varsavia, ma una combinazione di odi e interessi, interni ed esterni. I regimi di Iran, Venezuela, Cuba, Nicaragua, Siria, Mali, con altri stati e partiti affini, possono essere indifferentemente post-marxisti, islamici, militari o autoritari. Invece condividono la paura per la democrazia e il contagio del liberalismo.
Regimi e partiti autocratici hanno come primo obiettivo il potere: reprimendo dissidenti cubani o donne iraniane, democratici venezuelani o ribelli siriani possono conservare il controllo dei propri stati e delle grandi risorse di cui spesso dispongono. In secondo luogo, vedono nell’Occidente liberale tanto una minaccia geo-politica quanto lo spazio ideale e sognato proprio di coloro che cercano di liberarsi nei loro paesi. Per tutti loro, l’internazionale putiniana è una opzione di lotta al mondo libero e la conseguente possibilità di controllare le società nazionali, ma la sconfitta di Putin rischierebbe di lasciarli senza un amico, un alleato e soprattutto un modello globale.
*Carmine Pinto è professore ordinario presso l’Università degli studi di Salerno di Storia Contemporanea.
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