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ESISTENZIALE

Alessio e la sua montagna valdostana

di Sandro Angelo Ruffini

Bovindo

Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.


Alessio e la sua montagna valdostana

di Sandro Angelo Ruffini

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Si chiamava Alessio ed era stato un giovane sportivo, una gloriosa promessa del calcio fino ai diciassette anni, quando, durante un torneo sulla spiaggia, in una notturna estiva con gli amici di sempre, era terminata la sua illusione rispetto a quel divertimento che tanto amava e nel quale eccelleva.
In uno scontro fortuito tutta la squadra avversaria l’aveva letteralmente ricoperto di botte a non finire, semplicemente per invidia, perché il ragazzo era bello ed ammirato e toccava la palla con una certa maestria.
Non avrebbe mai immaginato potesse esistere un sentimento così poco generoso e retrogrado: un’indecenza, la riteneva. Risollevandosi da terra, però, aveva deciso che non avrebbe mai più fatto il calciatore e sarebbe diventato uno scrittore, un poeta.
Tutto il suo lavorio, tutte le sue tenaci forze erano indirizzate a celebrare la ricchezza del suo animo di fronte a tanta ipocrisia e povertà spirituale.
Il giovane maturò la sua esistenza e si trasferì per lavoro in Piemonte, quell’immenso territorio verde, collinare e non, pregno di Prealpi, luogo ove poter esprimere al meglio la sua persona e celebrare degnamente la sua umana voglia d’esistere. Si impiegò per un periodo nel sociale, operando come assistente a disabili ed anziani della zona. Riprese a studiare per suo conto e si laureò in Economia Aziendale presso la prestigiosa Facoltà di Torino.
Una laurea che non faceva parte della sua personalità, se non per rivalsa nei confronti di coloro che lo ritenevano un imbecille patentato, un inetto.
Intanto l’uomo scriveva poesie, racconti, romanzi, prendendo spunto dalla propria modestissima vita, dal suo vissuto o, meglio ancora, guardando, come in uno specchio, le esistenze altrui, così straordinariamente ricche di fascino e di episodi veri, reali e, diciamo, anche verosimili, ossia, paradossalmente, surreali.
Egli abitava una semplicissima casa canavesana, in pietra di montagna, a un solo livello, contornata da rose, ortensie e piante ornamentali che lo stesso uomo curava e a cui parlava, come fossero sue figlie. Aveva anche un cane, un Border Collie, preso quasi dalla strada quando era cucciolo, che adorava quale amico inseparabile e fedele compagno di cammino, da cui era rispettato e, a sua volta, ammirato.
L’uomo si trovò improvvisamente senza poter più lavorare per una serie di valide ragioni, certamente giuste per lui, ma non per gli altri e per la società in cui viveva.
La salute cagionevole, la mancanza di opportunità per sé e gli anni che passavano inesorabilmente, in un mondo del lavoro sempre più complesso ed esclusivo, terreno dei giovani, sicuramente più preparati e abili nell’utilizzo della tecnologia e degli strumenti di un universo ancora più rapido ed esclusivo. E, ancor più, perché non conosceva nessuno che gli potesse dare una benché minima occupazione retribuita e degna di questo nome.
Allora cominciò a chiudersi particolarmente in sé stesso e nelle sue riflessioni acute e personali, che scriveva ed elaborava su un computer portatile, preziosissimo in ogni luogo.
Di giorno macinava tanti chilometri da casa sua fino a Pont-Saint-Martin con il suo fidatissimo ed elegantissimo cane bianco e nero. Arrivava in prossimità della chiesetta romanica di San Lorenzo, prima di entrare nella cittadina valdostana e, attraversato il Ponte del Diavolo, saliva fino al santuario di Machaby, dove stendeva all’addiaccio la sua tenda da campo e, fissandola bene al terreno, la innalzava per quel poco che potesse, giusto per ripararsi lievemente dall’escursione termica notevole che si avvertiva di notte e da eventuali e improvvisi scrosci d’acqua, tanto frequenti in montagna.
L’uomo era diventato così strano che tutti ne provavano timore o, quantomeno, reverenza. «Perché non lavora quello sfaticato?!» gli gridavano da lontano alcuni, nel vederlo passare con il suo pastore scozzese. Altri abbassavano nervosamente le persiane delle proprie case o suonavano incessantemente ai citofoni; altri ancora lo aspettavano, pazientemente, sigari e sigarette in bocca, quasi a minacciarlo, a incutergli paura. Nessuno osava toccarlo, forse per timore di Dio.
Sì, perché certa gente così è protetta solo dall’Altissimo, dal Padreterno, ed è costantemente minacciata dagli uomini e dal mondo, per così dire, normale.
E l’uomo sapeva che la montagna poteva finalmente liberarlo, elevarlo dal sozzume di questa umanità corrotta e giudicante: solo lui, un poveraccio che non faceva male a niente e a nessuno e che amava tutti, soprattutto i bambini e i più piccoli e disperati uomini della terra.
Dalla montagna l’uomo gustava scenari mozzafiato: vette, ghiacciai, fortezze arrampicate sulla roccia e vegetazione d’ogni tipo e forma, bluetta, gialla oppure straordinariamente violacea, che sembravano attendere qualcuno per essere ammirate.
Ma non solo. Da lassù guardava meglio il cielo, le costellazioni, le nubi che si trasformavano talvolta in cirri, talvolta in minacciosi e cupi orizzonti oscuri che si disfacevano velocemente al vento.
In più osservava i volatili di varie dimensioni e forme viaggiare a velocità ancestrali, forse più liberi di lui e senz’altro senza condizionamenti di giudizi o persecuzioni di sorta.
La gente, una volta arrivato lassù, non poteva fargli nulla, neppure umiliarlo o canzonarlo. Ma forse provava ancora invidia per la sua libertà e per quella leggerezza che avvertiva, così come quando era ragazzo e giocava a calcio: uno sporco e assurdo senso d’avversione.
L’uomo, sulla montagna e nei pressi del santuario, pregava Dio, quel buon e misericordioso Dio che lo aveva messo al mondo. E ricordava così sua madre, che non c’era più da tanto e lo aveva partorito nel dolore e con la gioia di una donna comune.
Dalla montagna vedeva giù la valle verdeggiante e i minuscoli tetti in ardesia delle case di pianura; scrutava il diramarsi argenteo del fiume Dora, irrefrenabile e convulso nel suo procedere attraverso il letto ghiaioso verso territori altri, come avesse fretta di accarezzarli nel suo marciare rigoroso fino al mare.
Alessio sulla montagna liberava il suo pensiero dall’amaro fardello della terra, di cui era forse anche stufo. E dunque l’uomo pensava, rifletteva e poi scriveva quanto aveva maturato dentro.
Così, solo con il cane e il suo computer, a volte pernottava lassù, in un mondo selvaggio e incontaminato, accanto a fiori, insetti, alla mercé degli animali di quel territorio alto, che lo percepivano, in fondo, come uno di loro, con sensi, istinti e abilità particolari e straordinariamente sviluppati.
In altre circostanze ridiscendeva per cercare cibo per sé e per la sua bestia. E trovava di tutto: fragole, fungaie, lumache, asparagi. L’uomo aveva imparato a fidarsi solo del Signore e a chiedere a Lui per ogni sua necessità.
«Non fa nulla tutto il giorno!» gli gridavano gli altri, strombazzando con le auto a tutta forza o sgommando davanti a lui senza poterlo toccare, perché ne avevano timore.
Alessio tornava a casa stanco, accendeva la legna nel suo camino antico e capiente e si buttava sul letto per chiudere un po’ gli occhi. Il cane gli si accucciava accanto, sul suolo fresco, e si appisolava anche lui, come un buon e onesto compagno di viaggio.
Al primo mattino i due riprendevano solidali la marcia verso i monti, su per quel sentiero che conduce presso l’antico monastero di Fontaney, prima nelle valli valdostane e poi sul selciato di montagna, di fianco a larici e pini silvestri, fino a raggiungere l’agognata e preziosa solitudine nei pressi del forte di Machaby.
Alessio portava con sé il suo computer per raccogliere impressioni e sensazioni del giorno, attraverso tutto ciò che captava dall’esterno. Era davvero diventato un poeta, uno scrittore che riportava tutto ciò che gli accadeva sul computer, come fosse il suo taccuino di viaggio.
Giunti sulla radura che si apre di fronte alla fortezza sulla altura di Machaby, l’uomo pose la sua tenda campestre e la innalzò, come era solito fare nei momenti di sosta. Accese un falò rapidamente per scaldarsi e attese che facesse buio.
Il mondo di lassù si illuminò di luci e stelle e di colpo si fece silenzio tutt’attorno. Finalmente, senza peso né illusioni, si addormentò naturalmente con il suo cane, per non svegliarsi più.

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