TARANTO - Non compaiono quasi mai in prima linea. Non incendiano auto, non chiedono denaro, non minacciano apertamente. Eppure, nelle pieghe dell’inchiesta Argan, le figure femminili assumono un ruolo cruciale, fatto di mediazioni, collegamenti, coperture. È un potere discreto, spesso invisibile, ma capace di garantire continuità all’azione criminale anche quando il vertice è dietro le sbarre.
Uno dei passaggi più delicati dell’indagine riguarda una donna di 35 anni, residente a Pulsano, alla quale viene contestato il reato di esercizio abusivo della professione forense. Secondo l’accusa, pur non avendo mai conseguito l’abilitazione, si sarebbe presentata come avvocato del Foro di Taranto, sfruttando il proprio status di praticante in uno studio legale per accreditarsi come difensore di fiducia di uno degli indagati.
Una figura che, nelle ricostruzioni investigative, non si sarebbe limitata a un ruolo formale. La donna avrebbe avuto accesso all’Istituto penitenziario di Lecce, dove il 54enne ritenuto al vertice del gruppo era detenuto, riuscendo così a trasmettere all’esterno comunicazioni e disposizioni. Messaggi brevi, essenziali, consegnati sotto forma di pizzini, secondo un metodo antico e collaudato, capace di eludere i controlli e mantenere vivo il filo di comando.
È in questo spazio grigio, tra legalità apparente e illegalità sostanziale, che la presenza femminile assume un valore strategico. La credibilità sociale, l’assenza di sospetti immediati, la possibilità di muoversi in contesti istituzionali diventano strumenti funzionali a un’organizzazione che non si è mai realmente fermata, nemmeno durante la detenzione del suo presunto leader.
Accanto a questa figura emerge poi quella della compagna del 54enne, descritta dagli inquirenti come parte attiva nella gestione quotidiana dei rapporti con l’esterno. Non una presenza passiva o inconsapevole, ma una donna coinvolta nella costruzione di una narrazione utile a ottenere vantaggi. È con lei che l’uomo si sarebbe vantato della simulazione di uno stato di invalidità, messa in scena per ottenere benefici penitenziari.
Le intercettazioni restituiscono dialoghi che oscillano tra il cinismo e la teatralità. «Io l’Oscar devo vincere», avrebbe detto l’uomo, ironizzando sulla propria capacità di recitare la parte del detenuto malato. «Dentro l’ambulanza stavo come uno storpio». Parole che trovano sponda nella compagna, che lo avrebbe definito un “attore nato”, attribuendo proprio a quelle doti l’ottenimento, in passato, di condizioni detentive più favorevoli.
Ma il ruolo della donna non si sarebbe fermato alla complicità emotiva. Secondo l’inchiesta, durante il periodo degli arresti domiciliari, l’abitazione del 54enne sarebbe diventata un punto di incontro non autorizzato, frequentato da sodali e, in alcuni casi, persino da vittime delle estorsioni. Un via vai che avrebbe richiesto organizzazione, discrezione, capacità di muoversi tra normalità apparente e attività illecite.
In questo quadro, le donne non appaiono come semplici figure di contorno, ma come ingranaggi essenziali di un sistema che si regge anche sulla fiducia, sulla protezione, sulla gestione delle relazioni. Un contributo che raramente assume forme violente, ma che risulta determinante per aggirare controlli, mantenere il silenzio e far arrivare ordini dove non dovrebbero arrivare.
L’inchiesta Argan, ancora nella fase delle indagini preliminari, consegna così un’immagine complessa e scomoda. La criminalità non è solo forza bruta e intimidazione, ma anche relazioni, ruoli complementari, complicità costruite nella quotidianità. E in questo equilibrio oscuro, la presenza femminile diventa uno dei fattori che consentono al sistema di sopravvivere, adattarsi e continuare a operare anche quando dovrebbe essere fermo.
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