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DRAMMATICO
11 Dicembre 2025 - 10:14
Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.
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E adesso? Mi domando, guardando l’abito appeso all’armadio della camera da letto della mia amica Manuela, nell’appartamento accanto al mio. È un vestito di seta, modello sottoveste, verde oliva, lungo, con le spalline, regalo di mio marito Geremia. Ho ricevuto un suo messaggio sul cellulare, mentre tornavo dalla visita di controllo con l’oncologo: «Vai a casa di Manuela e preparati.» Così ho fatto, un po’ inquieta.
Manuela mi aspettava. «Stasera Francesco viene con me e Stefano a mangiare una pizza.» Ho capito che lei e il marito avevano organizzato tutto alle mie spalle, con Geremia, e che non avrebbero accettato un no come risposta. La mia amica mi ha scortato nella sua camera da letto e ha indicato un’enorme scatola di cartone. «C’era dentro il vestito, l’ho messo su una stampella. Hai anche le scarpe e una pochette coi trucchi. Divertitevi, ve lo meritate. Puoi fare una doccia, in bagno trovi accappatoio e asciugamani.» Mi bacia e scappa via, prima che mi opponga.
Ha sistemato ogni cosa per farmi sentire a mio agio. A mio agio. Non mi ci sento da tempo, in un corpo che ho smesso di riconoscere e che sento lontano da me. E adesso? È la stessa domanda che mi sono fatta al momento della diagnosi del male che mi ha colpito. Male. Brutto male. Male del secolo. Male assoluto, che nessuno vuole chiamare cancro. Il male conosciuto da tutti; il male di cui parenti, amici, estranei sanno più di te. Gli stessi che ti raccontano del fortunato paziente sopravvissuto, per rassicurarti. Quando tu, invece, non fai che chiederti: E adesso?
Adesso cosa sarà di me e della mia vita? Del mio matrimonio? E, soprattutto, di mio figlio Francesco, figlio speciale di un dio minore voltatosi dall’altra parte? Scoperto cosa avesse Francesco, avevo messo da parte le domande. Sarebbe stato inutile chiedersi: Perché a me? Non era rilevante. Era importante esclusivamente fornire a lui ogni arma contro uno spettro oscuro, ogni possibilità di cura e miglioramento. Le domande, però, dopo la scoperta del mio fardello, sono diventate ineludibili. Se non riuscirò a sconfiggere questo male, che accadrà al mio bambino? Chi lo bacerà prima di andare a dormire, chi gli preparerà la merenda, chi lo porterà alla terapia? Lascerò mio marito Geremia ad affrontare il futuro da solo, andando via troppo presto da questa terra? E lui, Geremia, ce la farà?
Il maledetto dopo di noi era l’E adesso? più grande, il più difficile da gestire: in fondo, la mia paura più profonda, il timore assoluto di ogni genitore, figurarsi della mamma di un bimbo disabile. Seduta sul bordo del letto, dopo la doccia, osservo, ipnotizzata, la luce dell’abat-jour riflettersi sulla stoffa del vestito, scelto nella sfumatura del verde delle olive del Mediterraneo. Uguale a quello dei miei occhi, che mio marito ama.
Lo indosso senza pensarci troppo, con i sandali abbinati. Col cinturino alla caviglia, argentati, hanno un tacco altissimo e decorazioni in strass. Esattamente il modello che avrei scelto per me per una serata speciale, un genere che non metto da tempo, preferendo scarpe da ginnastica più adatte a una vita frenetica. La scollatura dell’abito evidenzia un corpo difettoso; la coppa sinistra del bustino è vuota di un seno che non c’è più. La fine di una linea frastagliata, rosea, è il tatuaggio del male rimosso, un buco che ho deciso di non riempire; la vanità non mi è più concessa. Non sono mai stata tanto magra, nella vita adulta.
Dell’immagine riflessa nello specchio a figura intera, nella stanza di Manuela, mi colpisce il pallore del viso. Con gli zigomi tesi sotto la pelle, i capelli cortissimi più sale che pepe, gli occhi sembrano più grandi, quasi innaturali… estranei. Mi trucco per assumere un aspetto dignitoso, per nascondere le occhiaie, per illuminare lo sguardo appannato: una passata di correttore, spolverate di cipria e fard, le ciglia allungate col mascara nero e, in ultimo, il gloss sulle labbra. È un maquillage acqua e sapone, mi caratterizza e anch’esso piace a mio marito. Una spruzzata di profumo, e sono pronta.
Tesa, più di una corda di un disarmonico violino, suonò il campanello di casa mia. E adesso? Provo a stamparmi in viso il sorriso più sincero di sempre. Lo devo a Geremia. L’uomo che mi apre la porta. L’uomo che ho ascoltato piangere disperatamente in bagno, sotto la doccia, per non farsi sentire. L’uomo che ha preso le forbici e mi ha spuntato i capelli appena hanno iniziato a cadere. L’uomo che mi reggeva la fronte, inginocchiato accanto a me, e che mi proponeva disgustose tisane antinausea. L’uomo che stringeva forte forte me e Francesco nel lettone, esorcizzando coi suoi abbracci l’ennesimo uragano abbattutosi su di noi. Il marito migliore del mondo, un papà eccezionale.
«Sei bellissima. Prego, principessa.» È elegante. La camicia bianca fa risaltare il grigiazzurro dei suoi occhi, contornati da rughe non solo d’espressione; i pantaloni grigi e le scarpe Duilio completano un outfit raffinato. Il bacio che mi dà è delicato, per nulla casto. Il sottofondo della nostra effusione è una melodia del sempreverde Frank Sinatra, scelta dal cellulare.
«Che hai combinato?»
Candele accese in giare di vetro, disposte sulle mensole del salone, diffondono una fragranza misteriosa, dolce e speziata, richiamo di note di esotica cannella e di chiodi di garofano. Palloncini riempiti di elio, a forma di cuore, rossi, volano sul soffitto; un festone multicolore a striscione, “Buon compleanno”, è appeso sopra il divano. «Di chi è il compleanno?» Arrossisce. La timidezza, merce rara in un mondo di spavaldi, è ciò che di lui mi ha sempre affascinato, dall’inizio della nostra conoscenza.
Non mi risponde e sposta la seggiola per farmi accomodare al tavolo del soggiorno, apparecchiato per le grandi occasioni, col servizio buono. Il cestello da ghiaccio raffredda il vino bianco già stappato; altre due candele, altrettanto profumate, illumineranno una serata romantica. «Ho preparato una cena semplice, lo sai che non so cucinare.» Non sarà un problema. Il mio rapporto col cibo è diventato problematico, l’appetito scarseggia. «Non preoccuparti. Che prevede il menù?» Bluffo: l’ho già intuito dall’odorino proveniente dalla cucina. «Pollo al curry, riso basmati e verdure saltate: il mio massimo.» «Pure esotico, bravo.»
Bravo lo è stato davvero. Su due piatti piani tondi, bocconcini di carne avvolti da una morbida salsa color zafferano sono accompagnati da una torretta di riso e da una porzione di zucchine e carote a julienne. Lo chef improvvisato mesce il prosecco nei calici e mi invita a un brindisi. «A te, mia bellissima moglie.» Tocco il suo bicchiere col mio, con una smorfia di malumore, subito intercettata. «Hai il musetto triste. Il motivo?» «Sono brutta, e si vede la cicatrice, qui.» Gli indico l’orrendo taglio, all’altezza del seno. Lui mi smentisce e mi fa commuovere, perché l’occhiata che mi rivolge è piena di sincera passione. «Rappresenta la parte più bella di te, quella che ti ha salvato. La amo più dei tuoi occhi, credimi.» Mi tocca la mano fra il bicchiere dell’acqua e il tovagliolo, e non posso che credergli.
La sua carezza mi emoziona, Geremia è la mia favola infinita. «Dai!» Lui, il mio porto sicuro, mi incoraggia, mi sprona a cominciare. «Buono, il pollo.» È gustoso e lo mangio lentamente, con piacere, fino alla fine, in una cena di sguardi parlanti e di eloquenti silenzi. Geremia toglie i piatti sporchi e mi invita a danzare, con un buffo inchino. «Sei un pazzo completo.» «Pazzo di te!» Sono pochi passi: la mia testa è sulla sua spalla, le sue braccia mi avvolgono, i respiri si fondono, come spirali di anime connesse nel tempo di una sola canzone.
I frammenti del film della nostra vita assieme mi scorrono davanti agli occhi, nei fotogrammi dei momenti più belli. Il muscolo cardiaco batte velocemente. Sono viva. Mi sento viva, dopo tanto. «Ci sarebbe il dolce...» L’altra metà di me toglie dal frigo una torta Sacher di enormi dimensioni, con la scritta “Auguri”, la mia preferita. Mi sconcerta. «Perché?» «È la torta per il tuo compleanno, amore mio.» Ha un sorriso mefistofelico, Geremia. «Sono nata ad aprile, non oggi. Ti confondi.» «Il tuo nuovo compleanno, intendo.»
Infila nella glassa una candelina di cera bianca, a forma di zero, nascosta coi fiammiferi nella tasca dei pantaloni. «È l’anno zero, ripartiamo da qui. Ho sentito l’oncologo. Mi ha detto che sei...» Ha gli occhi lucidi di felicità, colmi di sentimento. Lo interrompo bruscamente, terrorizzata da quanto sta per uscire dalla sua bocca. «Non dirlo, ho troppa paura, non riesco a pensarci. E adesso?» E adesso che sono guarita? «Non devi pensarci. Devi vivere. E adesso? Apri la porta, amore mio!» Mi sprona, accendendo la candelina.
Lo stridio della punta del fiammifero sulla cartavetrata mi sveglia: è uno schiaffo dato in faccia a mano aperta, a cui non posso sottrarmi. Vincono i rumori sul pianerottolo: la vocetta di mio figlio che chiama mamma, le manine che battono, i miei amici più stretti che intonano la classica canzoncina degli auguri di compleanno. Geremia fonde le sue falangi con le mie; tremiamo, tutti e due, assieme, ora e sempre. Ma assieme. Apro la porta, con decisione. E adesso? Beh… Adesso o mai più!

Testata: Buonasera
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