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AUTOBIOGRAFICO
24 Novembre 2025 - 06:01
Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.
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Nei lontani e ormai estinti anni Ottanta, quando ero solo una bambina, trascorrevo le interminabili sere d’estate con la mamma e i miei nonni materni. Ci si sedeva tutti sul balcone a chiacchierare e a rinfrescarsi dal caldo umido di Taranto. I nonni abitavano al terzo piano di via Sardegna 4. L’aria era ferma e puzzava di citronella, ma le zanzare parevano fregarsene, considerati i ponfi sulle gambe di tutti. Dal balcone si vedeva un convitto di suore e le altre case della città. Ero attratta dalla Madonnina che dominava il tetto della costruzione di fronte. Facevo grandi chiacchiere silenziose con lei, quasi come fosse una sorella. Le confidavo i miei sogni: da grande volevo fare l’attrice. Erano confidenze strette e segretissime tra me e lei. Ormai avevo capito che non potevo parlare con i grandi. Loro distruggevano tutto continuamente con frasi a cui non credevano neanche loro, invasi da parole che tramandavano di generazione in generazione.
Del tipo:
«Devi studiare, l’attrice la puoi fare per hobby.»
«Gli attori fanno tutti la fame.»
A me non pareva, anzi, alcuni sembravano pure belli pasciuti.
«Ma non puoi pensare di fare l’attrice, sai quanti riescono ad avere successo? Uno su mille.»
«E perché quell’uno non posso essere io?»
«Eh, sai… mica facile!»
Ma chi lo pensava che fosse facile? Se per questo, era pure difficile e faticoso sognarlo dopo tutti questi incoraggiamenti. Mentre gli adulti parlavano di sciocchezze e pettegolezzi di famiglia, io ero impegnata in qualcosa di più grande: chiedere alla Madonnina di esaudire i miei desideri. E lei non mi assediava con quelle espressioni assassine di sogni. Il tempo scorreva lento, ma io aspettavo trepidante l’appressarsi del crepuscolo, perché dopo queste intimità con la Madonnina accadeva, tutte le sere, qualcosa di magico. Si sa, gli oggetti al buio assumono forme diverse, si animano e talvolta diventano raccapriccianti. Si divertono ad accendere le paure dei bambini, perché l’occhio dell’infanzia teme diavoli dipinti. Pian piano tutto rallentava. Tutto, tranne il mio cuore. Le parole immaginarie della Madonnina diventavano confuse e sempre più rade. La luce che la illuminava si spegneva: lei si addormentava, forse, e io rimanevo sola, in un momento terso e surreale, in un’attesa palpitante.
Ecco l’imbrunire.
Incredibilmente, in un batter d’occhi, le case dietro il convento si disponevano minacciosamente una sopra l’altra, in modo disordinato. Ammassate. Come se si spingessero e si accalcassero, perché ognuna di loro voleva stare in prima fila a godersi chissà quale spettacolo (forse guardavano proprio noi?). Erano tutte lì davanti, senza una prospettiva definita ma caotica e soffocante; prepotentemente una sopra l’altra, quasi si accalcassero per vedere in prima fila il loro idolo preferito. Così disposte sembravano case rotte. Un insieme di forme spezzate. Ma la cosa davvero spaventosa era che quelle case sembravano rotte solo a me. Mia nonna le vedeva esattamente come erano di giorno. Invece no, caspita! Si erano spostate, avvicinate. Come fate a non vedere? Io soltanto percepivo la vita dentro di loro, capisci? Sentivo quasi il loro respiro. Anche perché il mio si era fatto piccolo piccolo e il più silenzioso possibile. La sensazione di solitudine mi frastornava e mi immobilizzava. Avevo paura anche a fare una piccola smorfia, caso mai le case si arrabbiassero e si avvicinassero ancora di più. E nessuno avrebbe potuto salvarmi. I grandi, che continuavano a farfugliare conversazioni nervose, neanche si sarebbero accorti che le case mi avrebbero picchiata, rapita e chissà cos’altro. Solo io riuscivo a vedere al di là delle cose. Mia mamma e mia nonna si sforzavano di vedere l’invisibile ai loro occhi, e io in parte lo apprezzavo. Mia nonna mi chiedeva, tra la curiosità e lo schernimento:
«Ma dimmi, come sono queste case rotte?»
Umpf! Che domanda stupida. Ma davvero mi stava chiedendo questo o era solo un’eco della mia mente? No, purtroppo era vero. Non valeva la pena neanche rispondere, ma a quei tempi non avevo ancora imparato il potere del silenzio.
«Rotte, nonna, non le vedi?» soffiavo seccata.
In che altro diavolo di modo potevano essere? Lei sorrideva. Quel risolino così canzonante mi faceva ammalare di rabbia, perché rompeva la mia immobilità. Il solo muovere le labbra per rispondere poteva provocare l’irreparabile. Ed ero certa che le case mostruose sentivano anche il battito accelerato dalla paura del mio cuoricino. Lo stare fermissima mi stancava e spesso chiudevo gli occhi per non vedere quello che accadeva.
«Se non lo vedi, non esiste!»
Ogni volta che la mia curiosità ne apriva uno, le case erano più vicine, e allora via, di nuovo li serravo entrambi. Come se quella chiusura cancellasse il mio intorno. Ripetevo a me stessa di stare calma. Ma tutto dentro di me era un meraviglioso e tumultuoso subbuglio. Fuori ero impassibile, una statua di cera, mentre all’interno vi era un uragano di potenti emozioni. Non volevo che i grandi si accorgessero di questo stato d’animo. Lo avrebbero deriso. E disturbato. Era un momento solo mio. Intimo. Orgasmico. La paura, alla fine, veniva vinta dal sonno. L’ho poi imparato anche da grande che il dormire, a volte, è una salvezza. Ancora oggi, quando ho molta agitazione, mi viene sonno. Quando volo in aereo ronfo che è una bellezza, senza bisogno di sonniferi. È stravagante come le tenebre prima giochino a cancellare il mondo e poi ricompongano i pezzi da dare in pasto al giorno. Infatti, al mattino, appena sveglia, correvo a guardare sul balcone e le case erano tornate al loro posto: perfette e ordinate. Incantesimo completato. Tiravo un sospiro di sollievo. Erano tornate amiche, o quasi. In effetti le guardavo sempre con una certa diffidenza e timore reverenziale: sapevo che in loro c’era qualcosa di oscuro. Non sono mai riuscita a rimanere sveglia per vedere il loro movimento notturno. Mi fregavano sempre! Anno dopo anno, le case si stancarono di ammucchiarsi e la mia sensazione di paura sbiadì pian piano, spazzando via i pezzi di quel mio mondo fatato, intricato ma leggero, in cui le emozioni avevano una potenza sublime.
Ultimamente, quando mi affaccio a quel balcone e osservo quelle case immobili, mi sforzo di volerle vedere rotte, in movimento, come allora. Invece no. Le case di sera sfumano verso il nero, ma le sagome deboli non si muovono più. Ripenso alla palpitazione che mi procuravano e mi inebrio di quella sensazione così piena. Rimangono ordinarie. Non hanno più voglia di avvicinarsi, di farmi paura, di vedermi. Forse non sono neanche io più così interessante, e loro non hanno nessuna attrazione a interagire con me. Non devono dirmi più nulla? In fondo, provo solo nostalgia di quell’incantesimo che accadeva ogni sera, di quel gioco quasi morboso che riusciva a coinvolgermi così tanto da uccidere la noia estiva. Forse esse non hanno più nulla da dirmi, poiché io non ho più nulla di cui stupirmi. Mi hanno sussurrato tutto quello che avevano il potere di raccontarmi. Le case rotte mi hanno insegnato a guardare oltre, mi hanno insegnato che il senso della vita consiste nella vita stessa, che l’evoluzione spirituale non è mai un percorso solo personale, ma riguarda una specie, pertanto da tramandare. In fondo, quelle case non sono altro che lo specchio di me stessa: tanto accattivanti e seducenti erano un tempo, quanto invecchiate, monotonamente grigie e fatiscenti sono oggi.
Ai miei nonni.

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