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MYSTERY

Il segreto di Beatrice

di Attilio Ne da Bergamo

Bovindo

Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.


Il segreto di Beatrice

di Attilio Ne

Diciassette novembre duemilaventicinque. Il sole stava calando dietro le creste dei monti e una nebbiolina sottile, quasi irreale, aveva già inghiottito la costa bresciana del lago d’Iseo. Pisogne e Sale Marasino erano svanite nel grigio lattiginoso, mentre Lovere brillava ancora, sospesa in una luce dorata che si rifrangeva sui vetri delle terrazze affacciate sul lago, lanciando lampi e bagliori. Sulla piazza, pochi turisti indugiavano ancora. Alcuni passeggiavano lentamente accanto al monumento ai Tredici Martiri, godendo del silenzio che calava insieme al crepuscolo; altri sfidavano le folate fredde, bevendo l’aperitivo ai tavolini del bar d’angolo, con il bavero alzato e lo sguardo perso, fumando e chiacchierando. Le loro voci erano ovattate, come se il lago stesso le assorbisse. Paolo infilò il giaccone di lana, si calò il berretto sulla fronte e uscì di casa. Si incamminò lungo le scalette che serpeggiavano tra i vicoli stretti e bui del borgo antico. Passò davanti a botteghe chiuse da anni, le saracinesche arrugginite come bocche serrate, le vecchie insegne ormai sbiadite. La torre medievale osservava silenziosa la piazzetta deserta. Una donna anziana, imbacuccata in uno scialle nero, arrancava con una borsa pesante verso casa. Faceva freddo; Paolo sentiva brividi lungo la schiena. Aveva bisogno di bere qualcosa: entrò nella vineria di Osvaldo; l’odore di botti e vino lo avvolse come un manto. Al banco, un tipo sorseggiava un bianco, tracciando con un dito cerchi sul legno.
«Ciao, Gigi.» Quello si voltò lentamente, gli sorrise appena e gli batté una mano sulla spalla, poi chinò il capo e tornò a fissare il bicchiere.
«Ehi, che aria da funerale qua dentro. È passato Piero?»
«No, non si è fatto vedere.» Al tavolino in fondo, due vecchi col cappello in testa giocavano a carte davanti a un mezzo litro di rosso. Girarono il capo per vedere chi fosse entrato e fecero un breve cenno di saluto, poi ripresero il gioco.
«Versami un bicchiere che devo tirarmi su.»
«Bene. Un Chianti?» domandò Osvaldo.
«Vai!» Paolo accostò il bicchiere alle labbra. Il vino scese in gola e lo riscaldò, ma non bastò a scacciare la strana inquietudine che lo accompagnava da ore. «Oggi è una giornata strana. Sono annoiato e di cattivo umore.» Gli venne in mente la strofa della canzone di Guccini: «Cala novembre e le inquietanti nebbie, gravi coprono gli orti…». Sfogliò distrattamente il giornale, poi lo chiuse con una smorfia. Si alzò e uscì salutando, lasciando tintinnare la porta a vetri dietro di sé. Fuori sistemò nervosamente il berretto sul capo; dentro di sé covava una sensazione che nessun bicchiere di vino poteva scacciare. Sul lungolago, il vento si era fatto più pungente e brevi folate sollevavano le foglie secche e giallastre dei tigli che intrecciavano i loro rami neri e spogli. Si avvicinò al parapetto e scrutò l’acqua. Il riflesso tremolante dell’ultimo raggio di sole disegnava una linea sottile sull’acqua calma. Il colore del lago era verde scuro, mulinelli lenti muovevano le alghe come chiome scompigliate. Il silenzio era ipnotico, rotto solo dal respiro della risacca e dal verso monotono delle anatre e degli svassi. Saliva un odore indefinibile, quasi di marcio. Paolo, per un momento, si lasciò cullare da quella fragile, malinconica bellezza. Poi, per liberarsi da quella sensazione opprimente, decise di reagire e pensò di noleggiare una barca. Voleva remare verso Sarnico, fino a quel punto luminoso sulla costa dove si ergeva la villa Faccanoni, immersa nel suo stile liberty decadente. Si accordò col barcaiolo, che sciolse il nodo dell’ormeggio e gli diede i pesanti remi. Paolo salì sulla barca e appoggiò lo zaino a prua. Si sedette, iniziò a remare e la barca lentamente si staccò dal molo. I colpi di remo cadenzati sembravano spingere via i pensieri oscuri l’uno dopo l’altro, lasciando l’eco di un lieve sciabordio. La riva si dissolveva alle sue spalle, insieme alle voci, alle luci, al mondo. Il silenzio diventava denso, quasi palpabile. A un certo punto si accorse di essere stanco e si fermò per riprendere fiato; la corrente prese a cullarlo con dolcezza inquietante. Le luci dei paesi baluginavano in lontananza, le montagne erano solo ombre immobili e le nuvole si fondevano con l’oscurità. Stava per riprendere i remi, quando un tonfo sotto la chiglia lo fece trasalire. Si sporse, e il cuore gli si fermò. Un velo bianco, ricamato, ondeggiava nell’acqua come un fiore appassito. Sembrava un abito… e dentro, un corpo. Tremando, lo avvicinò con il remo, afferrò il tessuto e lo trascinò a bordo. Sgranò gli occhi e il cuore si arrestò. Era una ragazza. Sedici, forse diciassette anni. Il viso pallido, gli occhi chiusi, i lunghi capelli biondi fradici le scendevano sul petto. Nessun respiro. Nessun battito. Solo silenzio. Il panico lo assalì, ma la lucidità prevalse. Doveva tornare. Col cuore in gola cominciò a remare, aumentando il ritmo. Le braccia gli dolevano, il fiato mancava, ma la riva si avvicinava. Le case illuminate, i lampioni, le auto… e sulla sponda, alcune figure. Pescatori? Testimoni? Avvicinandosi al pontile, cominciò a urlare. Voci concitate lo circondarono, mani si avvicinarono. «Accosta! Accosta!» La barca attraccò al molo. Lo aiutarono a sollevare il corpo e a depositarlo sulla terra. Paolo era impietrito e non riusciva a staccare gli occhi da quel volto immobile. Chi era? Da dove veniva? «Chiamate i carabinieri!» gridò qualcuno. Uno dei presenti prese il cellulare e chiamò. «Comando? È stato trovato nel lago il corpo di una ragazza. Sì. Sul lungolago di Lovere, vicino all’imbarcadero.» Una volante arrivò a sirene spiegate. Il maresciallo Caputo scese, si chinò sul corpo. «Dove l’ha trovata?» chiese a Paolo. «In mezzo al lago. Io… io l’ho vista galleggiare.» «Lei come si chiama?» «Paolo Rivolta.» «Stia qui. Si tenga a disposizione per il verbale. Qualcuno la conosceva?» «Dobbiamo avvisare il sostituto procuratore. E il medico legale» disse il maresciallo Caputo. «Per ora la portiamo nella cappella vicino alla parrocchiale. Piantone, lei resti di guardia.» Il corpo fu trasportato via su una lettiga della Croce Rossa che nel frattempo era giunta sul posto. Il capannello si sciolse. Paolo chiese se potesse essere presente ai rilievi. Il maresciallo acconsentì. «Domani mattina. Alle nove.» Quella notte Paolo non dormì. Il viso della ragazza lo perseguitava. L’abito bianco sembrava fluttuare ancora davanti ai suoi occhi. Chi era? Perché proprio lì? E soprattutto… perché lui? Continuò a girarsi e rigirarsi nel letto per trovare la posizione; si forzò di pensare ad altro, ma niente. Allora si alzò con un gesto lento, quasi meccanico. La stanza era immersa in una penombra lattiginosa. Versò un dito di whisky nel bicchiere, lo osservò tremolare sotto la luce fioca, poi lo mandò giù in un solo sorso. Ne versò un altro. Forse l’alcol avrebbe attutito il ronzio che gli martellava dentro. Al terzo bicchiere, finalmente un po’ intontito, appoggiò il capo sul cuscino e si addormentò. La mattina lo accolse con un sapore metallico in bocca e la testa come spaccata in due. L’alcol, pensò. Si trascinò in bagno, lasciò che l’acqua gelida gli graffiasse il volto, poi si vestì senza guardarsi allo specchio. Alle otto e trenta era già davanti alla cappella, pallido e teso. Il portone era chiuso e l’aria sembrava trattenere il respiro. L’appuntato fumava una sigaretta, lo sguardo perso in una conversazione al cellulare. Poco dopo, un’auto bianca si fermò davanti all’ingresso. Ne scesero il sostituto procuratore e il medico legale. Quasi nello stesso istante arrivò il maresciallo. «Vi faccio strada», disse, e aprì il portone con un cigolio che sembrava un lamento. Dentro, il silenzio era denso. Il corpo giaceva immobile. I capelli biondi, mossi, incorniciavano un viso che sembrava sospeso tra la vita e il sonno. Solo una catenina d’oro con due rubini brillava sul collo, accanto a un’ombra bluastra. Il medico si chinò, sfiorò la pelle con dita esperte, poi parlò con voce bassa: «Strangolamento. Non annegamento. L’hanno uccisa e poi gettata nel lago; le correnti l’hanno trasportata dove è stato trovato il cadavere. Chissà dove è avvenuto il delitto.» Fece una pausa. «E c’è dell’altro. Il corpo non mostra i segni dell’acqua. Non è gonfio, la pelle è intatta. È come se fosse emersa da un sogno, non da un lago.» Il maresciallo annuì, cupo. «Farò partire le ricerche. Diffonderemo la fotografia. Intanto serve una teca refrigerata. Non possiamo lasciarla corrompere.» Nel pomeriggio, le pompe funebri posarono il corpo in una teca di vetro. Sembrava una reliquia, un frammento di qualcosa che non apparteneva più a questo mondo. Nei giorni successivi, i giornali parlarono di una ragazza ritrovata nel lago. Ma nessuno sembrava cercarla. Nessun nome, nessun volto da abbinare a quel corpo. Il terzo giorno, una coppia svizzera si presentò al comando. La loro figlia, fragile e tormentata, era stata vista gettarsi nel lago da uno sperone roccioso nei pressi di Monte Isola, dove avevano affittato una camera. L’altezza, i capelli, tutto sembrava combaciare. Li accompagnarono alla cappella. Il padre si avvicinò alla teca, poi si ritrasse di colpo, come se avesse toccato il gelo. «Non è lei», disse, stringendo la moglie in un abbraccio disperato. Paolo, intanto, non riusciva a liberarsi da quell’immagine. La ragazza lo perseguitava nei sogni, nei silenzi, nei riflessi del lago. Cercava rifugio nello studio, ma ogni pagina sembrava riportarlo a lei. Ogni mattina correva in edicola, divorava i quotidiani, ma il mistero restava tale. Anche la stampa brancolava nel buio. «Ragazza annegata nel lago.» «Non ha ancora un nome il cadavere ritrovato.» «Prosegue il mistero: chi è la ragazza?» «Proseguono le indagini.» Questi erano i titoli dei giornali locali. Poi, come un raggio di sole in una stanza chiusa, arrivò Carla. Allegra, vivace, con gli occhi pieni di Brera e di arte. Era venuta a Lovere perché, per la tesi, doveva studiare un quadro all’Accademia Tadini.
«Paolo, che ne dici di accompagnarmi? Colazione, visita, pranzo. Ti distrai un po’.» Paolo accettò. Ma sapeva che non sarebbe bastato. L’incubo non si dissolveva. Si nascondeva. Aspettava. Giunti all’ingresso del palazzo, Paolo e Carla pagarono il biglietto e iniziarono a salire lentamente gli scaloni in pietra serena. Il silenzio ovattato del luogo sembrava amplificare ogni passo, ogni respiro. Al primo piano si aprivano le sale della pinacoteca, immerse in una luce dorata e immobile. Alle pareti, una sequenza di ritratti: antenati, nobili, personaggi illustri della famiglia del conte Tadini. Nobildonne in abiti damascati, lo sguardo velato di malinconia, adornate di collane di perle e collier di brillanti. Accanto a loro, gentiluomini in parrucche cotonate, con spadini o appoggiati a libri e mappamondi, fieri e immobili come statue. Carla si allontanò per dedicarsi ai suoi schizzi, lasciando Paolo a proseguire da solo. Ma fu in una sala appartata che accadde qualcosa. Il suo sguardo fu catturato da un ritratto diverso da tutti gli altri. Una figura bianca, eterea, immersa in un giardino fiorito. Il cuore gli balzò nel petto. Era lei. La ragazza del lago. Il viso dolce, gli occhi azzurri, e al collo una catenina con due rubini. Paolo impallidì, le gambe gli tremavano. Carla lo trovò così, sconvolto.
«Cos’hai? Sembri un cadavere…»
«Portami a casa. Ti spiegherò.» Uscirono. Il cielo era livido, il lungolago deserto. Solo alcuni pescatori fissavano l’acqua scura, mentre in lontananza si udiva il lamento della sirena del traghetto. Paolo sentiva dentro di sé una strana malinconia, ma anche una crescente ossessione. Decise che avrebbe fatto delle ricerche su quel quadro, doveva sapere chi era quella ragazza. Chiese a Carla se fosse stata disponibile ad aiutarlo. Lui ne sapeva poco di biblioteche, schedari, documenti. Il giorno dopo si recarono alla Biblioteca Tadini e chiesero di parlare con il direttore. Questi li informò che il lavoro di catalogazione era incompleto. Avrebbero dovuto cercare tra faldoni polverosi, uno per uno. Furono condotti in una stanza umida, nel seminterrato. Dai ripiani tolsero montagne di carte ingiallite e cominciarono il lavoro, starnutendo e tossendo per i cumuli di polvere che si erano depositati. Sullo scaffale in alto videro un faldone con scritto: Famiglia Sigismondi, e lo aprirono. Tra ricevute, inventari e bozzetti, lettere testamentarie, trovarono un quadernetto con la copertina rossa, ingiallito e spiegazzato. Sul frontespizio era scritto: Beatrice Sigismondi.
«Paolo, guarda! L’ho trovata» disse Carla. Lo aprì con delicatezza. La grafia era elegante, seppur incerta. Decifrò a fatica la prima pagina.

Sarnico, 12 ottobre. L’ho visto. Era in uniforme da ussaro, con la pettorina dorata e il mantello blu. È bellissimo, i suoi occhi azzurri ipnotizzano. Lo amo. Forse al ballo di stasera si accorgerà di me? No, è impossibile con tutte quelle bellissime dame. Io sono un nulla. 15 ottobre. È successo! È incredibile ma è successo. Mi ha vista e mi ha invitato con gentilezza. Abbiamo ballato. Le sue braccia forti mi sostenevano. Il cuore mi esplodeva. Ma Luigi, il mio promesso, mi osservava con uno sguardo truce. È geloso. Pericolosamente geloso. 18 ottobre. Lui è partito. Ha dovuto raggiungere la guarnigione a Bologna. Non vedo l’ora che torni. Conto i giorni, anzi le ore. Forse non dovrei, ma come si comanda al cuore? Luigi mi perseguita. Sono continue scenate. Ieri è arrivato a insultarmi. Non ce la faccio più. 25 ottobre. Luigi minaccia di suicidarsi se lo lascio. Ma io non posso più vivere così. 15 novembre. Domani gli parlerò. Sarà furioso, ma devo farlo. Non so quali parole trovare.

Poi, il silenzio. La pagina successiva era bianca. Continuando a cercare, trovarono una lettera della madre, la contessa Sigismondi.

17 novembre 1785. Cara Lucrezia, devo darti una tragica notizia: la nostra cara Beatrice è scomparsa. Luigi dice di averla vista gettarsi dal terrazzo sul lago. Ma io non ci credo. Era turbata, sì… ma non così. Impazzisco, non può essere. La mia figlia adorata, un fiore di primavera…

Paolo rabbrividì. «È lei. La marchesina Beatrice Sigismondi. Ma non si è suicidata… Luigi l’ha uccisa. L’ha strangolata.» Il corpo era stato ritrovato duecento anni dopo. Paolo volle rivederlo al più presto e corse in caserma. Di fronte alle sue insistenze, il maresciallo acconsentì. Il giorno dopo il cadavere sarebbe stato tumulato. Paolo e Carla giunsero alla cappella, di fianco alla basilica di Santa Maria in Valvendra. La scalinata e il sagrato erano quasi deserti, se non per qualche donna anziana che saliva a fatica per la messa. Giunse il sagrestano, che prese una grossa chiave, la infilò nella toppa, la girò due volte e aprì il pesante portone. I due, nell’ombra, si avvicinarono lentamente all’altare. Si bloccarono all’improvviso: il catafalco era vuoto; vi era solo la teca di cristallo. Il cadavere era sparito. Il sagrestano giurava di non sapere nulla: alle otto della sera prima all’interno della cappella non c’era nessuno e lui aveva chiuso la porta col catenaccio e due mandate. I carabinieri erano increduli: chi avrebbe potuto sottrarre un cadavere? Osservarono minuziosamente la porta ma niente, nessuna traccia di effrazione. Dopo pochi giorni, il caso dovette essere archiviato. Il mistero e la suggestione di quel fatto gravarono a lungo sul paese e furono motivo di sconcerto. A lungo si continuò a parlarne e ogni volta si sentiva un brivido alla schiena. Passarono i mesi. In occasione dell’anniversario dell’Accademia Tadini, il Comune aveva organizzato visite guidate nelle stanze mai aperte al pubblico. Paolo, spinto da un impulso inspiegabile, decise di partecipare. Alla fine del percorso, il gruppo dei visitatori fu condotto nel giardino, dietro il palazzo, dove, sotto un abete secolare, vi era un piccolo cimitero che ospitava il conte Tadini, il figlio Enrico - deceduto tragicamente per la caduta di un’ala del palazzo - e altri familiari. Tra lapidi e tombe di pietra, Paolo notò un piccolo monumento funebre, sormontato da un angioletto in marmo. Si chinò e vide che sul marmo erano incise parole semplici e solenni:

Contessina Beatrice Sigismondi
Tragicamente deceduta il 17 novembre 1785
Una preghiera.

Paolo rimase immobile. Il vento sibilava tra i rami. E per un attimo, giurò di aver sentito un profumo di rose… e una voce flebile, come un sussurro dal passato. La contessina Beatrice, sparita tragicamente, aveva voluto che le sue spoglie venissero ritrovate lo stesso mese e lo stesso giorno a duecento anni dalla sua morte. Voleva che in qualche modo si parlasse ancora di lei e che qualcuno scoprisse la verità sulla sua morte ingiusta. Non si era suicidata: amava troppo la vita. Qualcuno aveva voluto punirla, ponendo fine alla sua esistenza. Ora che la verità era stata ristabilita, anche se ormai inutilmente, poteva sparire di nuovo. Questa suggestione, tuttavia, non convinceva Paolo. Si recò dal procuratore e, dietro continue insistenze, ottenne che si riesumasse il cadavere. Dopo alcuni giorni, in una mattinata brumosa, si ritrovarono davanti alla tomba Paolo, il procuratore, il maresciallo, il prete e il sotterramorti. A un cenno del maresciallo si cominciò a scavare, si spostò cautamente la statuetta dell’angelo e infine si fece scivolare la lastra di marmo. All’interno pezzi di legno marciti, i resti di un corpo consunto, un abito bianco e una catenina con due rubini incastonati. Il prete benedisse i resti, poi si riposizionò il marmo e la tomba fu chiusa.

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