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STORICO
15 Ottobre 2025 - 07:01
Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
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Quello che sto per raccontarvi non è accaduto in Afghanistan, ma qui da noi. Questo modo di fare era diventato una consuetudine, dovuta alla difficoltosa situazione postbellica dell’Italia del Sud. Infatti, accadeva spesso che, quando una famiglia era numerosa e in condizioni economiche disastrose, si arrivasse all’infelice idea di alleggerire il peso di bocche da sfamare, affidando un proprio figlio a qualcuno al di fuori della cerchia familiare. Tuttavia, questo gesto non sempre veniva visto in modo negativo: per alcuni era come un atto di fiducia verso un futuro meno oscuro. Affidare i propri figli a famiglie meno povere – i cui membri avrebbero dato affetto e, in cambio, si sarebbero sentiti meno soli – era considerato “normale”.
L’episodio di cui sto per parlare accadde a una famiglia numerosa vissuta a Taranto, città bagnata da due mari, negli anni oscuri di un’Italia lenta a rinascere dalle proprie ceneri. Rita era una mamma di tanti figli, sposata giovanissima con un ragazzo di nome Luciano, un tipo poco amante del lavoro, buono solo a mettere incinta la propria moglie e per il resto disinteressato a come fosse costretta a vivere la propria famiglia e ai disagi dei giorni miseri, fatti di stenti.
In quel tempo, l’Italia era in ginocchio, usciva da una guerra non voluta; era stata spinta, catturata dentro una situazione bellica vergognosa e umiliante per tante cose. Così, la povertà nel Sud emergeva con maggior prepotenza nelle famiglie che erano in grosse difficoltà economiche. La sera, per i bambini, figli di quelle famiglie, non c’era pane morbido da mettere in bocca, ma solo pezzi duri, con l’aggiunta di muffa creatasi sul pane raffermo da tempo. Si usciva da quel tunnel piano piano, e l’unica risorsa a quella tragedia era il mare che si offriva, pronto ad accogliere gente di mare, pescatori da sempre, che trovavano pesci da vendere ma anche, finalmente, buoni per accendere una cucina spenta e per sfamare qualcuno. La felicità dei bambini, quando si ristoravano, era alle stelle, anche se sapevano che sarebbero arrivati giorni magri dopo la festa del pesce. E sì, anche il mare a volte sembrava ritirarsi: il mare è mare, sa lui quando farsi prendere, quando essere generoso oppure quando dare amarezza al pescatore che tira le reti quasi vuote. Era un’esistenza piena di sottomissioni. Nessuno si ribellava: la gente accettava con un certo fatalismo gli eventi e non ambiva a niente di più di una vita semplice, destinata a essere misera da sempre. In quel clima, in cui il vociare dei bimbi nei giochi semplici portava musica ai puri di cuore, si aprivano le risate del vicinato quando, la sera, tutti i vicini sostavano davanti alle loro abitazioni, seduti in cerchio a parlare o a sparlare di chi, in quel momento, era assente dal loro chiacchierio e non poteva sentire, mentre i ragazzini si rincorrevano giocosi fino a tarda ora.
Gocce di memoria fissate nel tempo, strette al cuore di chi muore di nostalgia, al ricordo di giorni poveri sì, ma belli, per l’affetto che si avvertiva, ricchi di amore per tutto. Perché, sembrerà strano, ma si rideva anche in caso di lutto, per sdrammatizzare la situazione dolorosa e sapendo di far contento il defunto ancora “presente” nella stanza, mentre qualcuno degli astanti raccontava episodi di vita del passato con ironia e battute scherzose. Una società umile, senza pretese, che viveva in un limbo. Era una vita in stallo: anche quando si verificava un cambiamento, tutto restava com’era. Si faceva fatica a mettere ordine nelle famiglie numerose, penalizzate da una guerra che aveva causato troppa miseria.
Luciano, marito di Rita, veniva anche lui da una famiglia numerosa, ma, al contrario suo, gli altri fratelli avevano un livello economico buono, considerata la situazione di allora. Una sua sorella, Maria, di pochi anni più piccola, era sposata con Valentino, impiegato ai servizi postali. Quell’uomo, prima di Maria, era stato sposato con un’altra sorella di Luciano, Vitina, che il destino aveva voluto morisse subito dopo le nozze, lasciando vedovo il consorte, che quindi si era risposato con la cognata Maria. Da quella unione era nato un figlio maschio, Pippo. Purtroppo, anche con lui la vita era stata crudele: all’età di diciotto anni, contagiato da un virus fulminante, era stato strappato all’affetto dei suoi cari. Per la madre, Maria, fu l’inizio di una sofferenza senza fine: non si rassegnò mai a quella grande perdita, maggiormente perché tra madre e figlio c’era un bellissimo rapporto. Un figlio ubbidiente, studente lodevole, che non aveva avuto il tempo di conoscere l’amore per una donna. Il tempo aveva privato il ragazzo della gioia dell’innamoramento. Valentino, dopo giorni, mesi e anni di quella assenza, convinse la moglie Maria ad accogliere in casa loro una bimba di Luciano, suo fratello, per crescerla come una figlia. Maria ascoltò quella proposta con dolore, perché per lei occuparsi di un’altra persona voleva dire rassegnarsi e aprirsi a una nuova presenza in casa. Tuttavia, alla fine acconsentì a fare il passo; così, un bel giorno, si recarono a casa di Luciano per parlare con la moglie Rita.
Le domandarono cosa ne pensasse, se la scelta di affidargli una figlia fosse un problema per lei e il marito. Luciano e Rita, lì per lì, sembrarono cadere dalle nuvole; tanto è vero che Rita si rivolse alla cognata Maria: «Perché prenderti una mia figlia? Le mie figlie più grandi ogni giorno vengono da voi per aiutarti in casa; cosa cambia?!» La donna rispose: «Cambia molto, perché la bambina la sera non ritornerà da voi, ma resterà a dormire a casa mia! Sai bene come stanno le cose… Dopo la morte di Pippo, per me non c’è più pace! Vorrei tanto vivere con una bimba, e ho pensato che sarebbe stata meglio una nipote, figlia di mio fratello, con lo stesso mio sangue, e non una sconosciuta… Cosa ne pensi?» Rita e Luciano erano confusi, sì, ma alla fine accettarono quella insolita proposta. Rita chiese alla cognata su chi fosse caduta la scelta, e Maria, d’accordo con il marito, fece il nome di Esterina.
Spontaneamente, Rita disse: «C’è Margherita che ha solo tre mesi! Appena nata, non sa nemmeno chi è la mamma… Perché non lei?» Valentino anticipò la risposta, confermando la scelta di Esterina, perché una bambina troppo piccola non sarebbe stata di aiuto a sua moglie, dopo il disagio provocato dalla morte del figlio. «Esterina ha cinque anni, è autonoma, la notte dorme; è perfetta per noi». Tutti i presenti in casa guardarono la piccola prescelta, destinata a una vita diversa, in un’abitazione ubicata oltre il ponte girevole, al borgo di Taranto, luogo da tutti conosciuto come Città Nuova. Rita si rivolse alla figlia per invitarla a raccogliere le sue cose e, ad alta voce, domandò: «Sei contenta di andare a vivere con la zia?» Esterina, una bimba timida e silenziosa, rispose alla madre: «Ma poi ritorno? Dormo qua con voi?» In aiuto a Rita intervenne la zia Maria, precisando alla piccola che da quel momento in poi lei apparteneva agli zii, pronti a prendersi cura della loro nipote. Gli occhioni belli di Esterina s’inumidirono e scesero lacrime silenziose. Nessuno osò dire qualcosa; erano tutti attoniti. Non sembrava prendessero seriamente la situazione, forse perché per loro la bambina si sarebbe ribellata e avrebbe fatto ritorno a casa.
Quel giorno risuonava il baccano di altri piccini – figli di Cecilia, la primogenita, sposata con un contadino che coltivava la terra fuori città, verso i “Cagioni” – che viveva assieme alla famiglia di Rita, sua madre. Per quella ragione, per il caos che c’era, la situazione di Esterina passò quasi inosservata. Dopotutto, la zia Maria era sorella del padre della piccola, e non c’era nulla di strano se una di loro si trasferiva a casa di altri parenti per dare un aiuto domestico; con la differenza che Salvina e Carolina, sorelle adolescenti della piccola prescelta, la sera ritornavano puntualmente a casa propria, mentre per Esterina questa libertà non ci sarebbe più stata.
Quella mattina, a malincuore, Esterina, senza rifiutarsi, salutò il resto dei componenti della famiglia che risposero chi prima chi dopo al suo saluto. La piccina, prima di uscire, con lo sguardo cercava l’attenzione della mamma, impegnata con il papà Luciano a congedarsi dagli zii. I genitori non persero tempo a mettere nelle mani dei loro parenti la vita di Esterina, che non riusciva a comprendere cosa stesse succedendo davvero. La mamma, avvicinandosi a lei, le disse a bassa voce: «Fai la brava e mangia tutto, perché a casa della zia non ti mancherà nulla, mentre qui da noi il pane non basta per tutti». La bambina, d’istinto, si strinse a sua madre e poi, piangendo, mano nella mano della zia, uscì dalla sua casa per entrare in un’altra dove si respirava il dolore per la perdita di Pippo – un cugino che lei non aveva mai conosciuto – figlio di zio Valentino e di zia Maria.
Mentre gli altri fratelli e sorelle rimasero impegnati a risolvere i problemi della miseria tramite lavoretti di aiuto domestico, pronti a disobbligarsi come potevano, anche con alimenti avanzati da portare a casa, per i maschi era diverso: Antonio, detto “il Re”, primogenito, si recava assieme a Rocco e a Egidio a pesca in “paranze”, imbarcazioni particolari con le quali si partiva per la Calabria a pescare pesci “importanti”. Luciano, capostipite di quella famiglia, continuava a esercitare il lavoro di nullafacente: vagabondo, fumava e amava bere; quella era la sua filosofia di vita. Lui era contento così! Si vantava di essere un maestro nel campo lavorativo, poiché, a suo dire, nel mestiere da maniscalco, bravo come lui non c’era nessun altro! Ma negli anni Cinquanta i cavalli cominciavano a sparire per far posto ad altri mezzi di trasporto, come i primi modelli di Honda importati dal Giappone. Le automobili divennero sempre più sofisticate e si diffusero rapidamente. In quel clima di cambiamento, le carrozze passarono in secondo piano per poi sparire quasi del tutto, a favore di macchine capaci di ospitare il nucleo familiare. Di conseguenza, Luciano con la sua abilità era fuori tempo rispetto a un mondo che cambiava rapidamente. Ma lui, non curante, proseguiva indisturbato il suo modo di vivere, tanto c’erano i figli maschi che si dovevano dare da fare per imbandire la tavola con la polpetta e un bicchiere di vino!
La vita di quella famiglia trascorse tra alti e bassi, fatti di episodi di vita sereni ma anche tumultuosi, soprattutto per via di Salvina, secondogenita dopo Cecilia. Una ragazza molto bella, dal carattere vivace, combattiva, che non metteva freno alle parole che le uscivano dalla bocca – belle o brutte – perché lei doveva esprimere la sua opinione. Una ragazza che, a prescindere dall’educazione, sembrava priva di sensibilità e non risparmiava a nessuno il suo soggettivo giudizio. Fidanzata con un bravo ragazzo, non tardò a lasciarlo per un bell’imbusto che, per farla sentire importante, la copriva di complimenti. A Salvina tutto quello piaceva, sia perché Rodolfo si presentava bene nel parlare – e questo non passava inosservato – sia perché un bel ragazzo, a quei tempi, sapeva di novità.
Naturalmente, quella sua scelta fece succedere il finimondo. Antonio disapprovava la decisione della sorella a favore di Rodolfo e, sentendosi in diritto di intervenire in qualità di fratello maggiore, spesso le alzava le mani con la speranza che le botte potessero farle cambiare idea. Ma era tempo perso: Salvina non solo non aveva paura delle botte, ma si intestardì a favore del ragazzo da lei prescelto fino al punto di lasciare casa sua per raggiungere Rodolfo, che viveva con la madre anziana.
Quella sera la famiglia rimase sveglia fino a tarda ora, aspettando che Salvina ritornasse all’ovile, ma senza certezze. Cecilia riferì alla madre che sua sorella, prima di andarsene, le aveva dato della cretina per aver consentito agli altri di decidere chi dovesse essere suo marito. «Non perché mi lamenti del mio uomo, ma forse ha ragione Salvina… Dovevo essere io a scegliere, e non voi che avete contrattato con la famiglia di mio marito il matrimonio da farsi. Sono giovane, ma già mamma di tre figli con un altro in arrivo, sono destinata a fare figli ogni anno, esattamente come hai fatto tu», si rivolse a sua madre.
Rita rispose che lei non conosceva un’altra vita, e che per tradizione la femmina doveva essere moglie e mamma senza fiatare né lamentarsi. «Questa è la legge fatta dagli uomini di sempre. Cosa possiamo fare noi, se non piegare la testa? Il maschio è fatto così! Lui comanda su di noi. Il nostro lavoro non viene riconosciuto economicamente per farci sentire soddisfatte e portare soldi in casa.» Cecilia ascoltò le parole della madre tra le grida dei suoi figli, mentre con la testa faceva un cenno di approvazione al suo discorso.
L’uscita di Salvina dalla famiglia lasciò un’amarezza nei cuori di tutti quelli che ridevano per le cose che diceva, perché le sue chiacchiere rallegravano fratelli e sorelle. Troppo presto si era congedata dalla casa. La sua curiosità di conoscere altre cose non era stata compresa, e per quella ragione gli altri furono restii a perdonarla. Tuttavia, quella fu una variazione che non cambiò l’andamento della famiglia: tutto si svolse come da prassi, in un nucleo familiare affollato dove gli adulti non riuscivano a seguire con attenzione ogni singolo figlio.
Anche quello di Esterina fu un cambiamento drastico e infelice: una bimba di tenera età passò all’improvviso dal caos della sua famiglia di origine al silenzio di una casa piena di ricordi, in compagnia di persone provate dalla vita e senza più alcun desiderio di sorridere. Il pensiero della piccola Esterina volava per ritrovare gli altri suoi familiari, ma soprattutto il volto della mamma riappariva nella sua mente, e subito si affacciavano lacrime spontanee che lei rimandava indietro alla presenza degli zii.
Mai una volta, una sola volta, la bambina parlò con la zia Maria: sarebbe bastato confessare che non voleva restare in quella casa piena di ricordi dolorosi e tristi, soprattutto per una bambina che fino ad allora era stata circondata dall’affetto chiassoso dei suoi fratelli. Per tanto tempo, la sera, nel suo lettino, si era chiesta: «Perché, mamma, non mi hai tenuta con te? Per me andava bene un pezzo di pane con il pomodoro, invece del brodo tanti giorni. Non capisco… La zia mi dice ad alta voce che sono sua nipote, ma mai si avvicina per accarezzarmi, per consolarmi da questo disagio regalatomi da loro. E poi, la scelta su di me non è stata ingiusta? C’era Vittorio, due anni più piccolo di me… Per non parlare di Margherita, piccola, di pochi mesi, che non sarebbe stata infelice di andare in una casa diversa dal luogo natio. Che senso ha aver conosciuto mia madre e tutti gli altri se poi sono stata portata via senza il mio consenso?»
La bambina, un bel giorno, prese la via di casa senza avvisare la zia. Per la sua tenera età, fu brava a percorrere le strade e ad attraversare il ponte per arrivare in via Duomo, a casa sua, da sua madre. Vederla piombare così da sola fu una sorpresa per tutti, ma non per gli zii, che si presentarono subito, preoccupati, a casa di mamma Rita per chiedere di Esterina. La bambina, alla vista degli zii, si andò a nascondere, ma a voce alta gli adulti la invitarono a uscire. Dopo tante insistenze, Esterina uscì dal nascondiglio per essere portata nella chiesa di San Michele dalle due donne.
La zia Maria e mamma Rita, davanti all’altare, fecero giurare a Esterina che doveva dimenticare la casa in cui era nata e che mai più avrebbe fatto il gesto di scappare. La zia disse alla bambina: «Giura! Alza la mano e giura davanti a Dio che starai sempre con me». Esterina, piangendo, giurò. Così, da quel giorno, la bimba promise e mantenne il suo giuramento.
Lei aveva tentato, scappando, di dire a tutti: È qui che voglio stare! Ma, nonostante quell’atto coraggioso, nessuno aveva preso le sue parti. Da quel momento, il cuore della bambina cessò di sperare. Esterina aveva compreso che la sua vita era proiettata dentro quelle mura tristi, testimoni di pianti disperati per una grave perdita che nessuno avrebbe potuto rimpiazzare, nemmeno la presenza di una bambina voluta a tutti i costi.
Man mano che i giorni, i mesi e gli anni passavano, Esterina, anche se con il cuore scontento, cercò di modellarsi al modo di vivere degli zii. Presto, e con puntualità, gli zii la iscrissero alla scuola elementare, dove apprese a leggere e a scrivere. Fu la prima a frequentare regolarmente una scuola, a differenza dei suoi fratelli che a stento sapevano scrivere la propria firma. Questo particolare permise a Esterina di essere una bimba privilegiata agli occhi dei suoi parenti, che la guardavano come una prescelta, una che viveva una vita più tranquilla, sana, rispetto a loro, costretti a faticare per riuscire a mangiare ogni giorno.
Tuttavia, a Esterina questo privilegio non garbava. Distrutta dal torto subìto, si chiuse nel suo silenzio e rispondeva solo quando era interrogata. Timida, riservata, osservava il mondo circostante con distacco, un mondo che non le apparteneva, perché il suo mondo era dentro una casa triste, gestita da due persone sole. Tutto, pian piano, si allontanava dalla sua fantasia, e stanca di rincorrere sogni irraggiungibili, Esterina non chiese più nulla.
E da quel giorno in poi, gli anni divennero uguali, ripetitivi. La mente di Esterina smise di inseguire l’arcobaleno fatto di tante promesse. La sua vita corse dietro l’arcobaleno fatto di nuove speranze.
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Testata: Buonasera
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