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Lo sciopero dei Metalmeccanici

Per Taranto una giornata particolare

Per una rinascita industriale che restituisca a Taranto la sua identità e il suo futuro.

Per Taranto una giornata particolare

Oggi i lavoratori, compresi gli operai dell’indotto dello stabilimento siderurgico di Taranto, sono in sciopero. Il corteo partito dalla fabbrica per arrivare a Palazzo di Città, ha voluto rappresentare al sindaco Piero Bitetti, la posizione del sindacato sulla nazionalizzazione e la progressiva chiusura, in tempi certi e definiti della chiusura dell’area a caldo.

Una proposta, del resto, maturata nella maggioranza dell'assise comunale dopo un lungo, faticoso e rissoso Consiglio, in cui, da un lato, ha prevalso l’ideologismo ambientalista anti-industriale, per cui il nemico è l’AIA, fonte di inquinamento nella sua forma attuale; dall’altro, la discussione si è persa tra sofismi, come il “sesso degli angeli” e il tentativo di “raddrizzare le gambe ai cani”. L’istituzione locale non sembra rendersi conto che si è giunti all’ultima spiaggia.

Di fronte a una crisi mondiale della siderurgia, occorre proteggere la produzione europea e italiana dalla concorrenza globale, segnata da una sovraccapacità produttiva in molti Paesi asiatici, a cominciare dalla Cina, che pratica dumping e altera il mercato.

Sarà una giornata di lotta per chiedere al governo se la siderurgia pubblica italiana avrà davvero un futuro, come promesso, o se si andrà verso lo “spezzatino”: una vendita a pezzi, nella quale i compratori acquisiranno solo gli asset di loro interesse.

È il momento della verità. Il tempo è scaduto: non si può più fare melina sulle promesse da marinaio, in una città che di mari ne ha due. La situazione è difficile, probabilmente è ormai sfuggita di mano, e va affrontata con coraggio: o la va o la spacca. Ne va del futuro di Taranto, della Puglia e dell’intero sistema industriale nazionale, perché l’acciaio resta un settore strategico.

L’autunno caldo ionico rischia di diventare incandescente se i lavoratori non riceveranno risposte concrete dal governo, non alle calende greche ma in tempi rapidi.

L’unica via rimasta, per salvare il salvabile, è la statalizzazione, dopo il fallimento dei due bandi di vendita di AdI del 2024-2025 predisposti dal Mimit. Si tratta di salvaguardare i posti di lavoro e affrontare il grande tema della decarbonizzazione di Acciaierie d’Italia. Le tute blu tarantine, genovesi e degli altri siti siderurgici stanno pagando un prezzo altissimo: 4.050 lavoratori in cassa integrazione, di cui 3.800 soltanto a Taranto. Ancora peggiore è la condizione degli operai dell’indotto, i cosiddetti “indiretti”, che non possono usufruire della CIG per motivi tecnici, contrattuali e giuridici. La rabbia cresce. Dopo un lungo periodo di attese frustranti, di promesse mancate e di degrado delle condizioni di lavoro, con un continuo ricorso alla cassa integrazione, i sindacati metalmeccanici hanno deciso di incrociare le braccia. E dire che finora si erano mossi con grande senso di responsabilità, evitando proteste e chiedendo soltanto di essere convocati a Palazzo Chigi per conoscere i piani del governo sulla crisi di AdI. Ma l’esecutivo ha fatto orecchie da mercante.

La misura è colma: non si può più restare vincolati al silenzio. Alcuni sindacati, proprio per questa prudenza, hanno perso numerosi iscritti: molti lavoratori non hanno rinnovato la tessera o hanno aderito a organizzazioni più radicali. Lo sciopero di oggi sarà dunque un passaggio cruciale, paragonabile a quello del 26 luglio 2012, quando la magistratura tarantina dispose il sequestro di sei impianti dell’area a caldo nell’ambito dell’inchiesta “Ambiente svenduto” sull’inquinamento.

Ieri come oggi, per far vivere la fabbrica – fonte di lavoro e occupazione – nelle migliori condizioni ambientali e sanitarie. Allora gli operai reagirono con forza: bloccarono le strade, impedirono l’accesso alla città e assediarono Palazzo di Città. Da non prendere come paradigma: basterà tenere lontani i facinorosi. Il 26 luglio, lo stesso giorno in cui Mario Draghi annunciava il “whatever it takes” per salvare l’euro e l’Italia dalla crisi finanziaria che teneva lo spread sopra i 500 punti, il GIP Patrizia Todisco ordinò il sequestro senza facoltà d’uso di tutti gli impianti dell’area a caldo e dispose gli arresti domiciliari per otto dirigenti dell’Ilva, tra cui il proprietario Emilio Riva e i figli Nicola, Claudio e Fabio. Fu l’inizio della fine per l’Ilva dei Riva. L’azienda venne descritta come una “zona di sacrificio”, dove la popolazione viveva in aree contaminate, con gravi conseguenze fisiche e psicologiche e una sistematica violazione dei diritti umani. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2022, lo stabilimento ex Ilva rientra a pieno titolo in questa definizione. “Susu ‘lla tigna la capu malata”, direbbero i tarantini. La gestione tecnica passò a Barbara Valenzano, dirigente dell’Arpa, mentre quella amministrativa fu affidata al presidente dell’Ordine dei commercialisti, Mario Tagarelli. Il tempo, però, è galantuomo. “Dall’esame dei documenti emergono, tuttavia, alcune criticità nella ricostruzione dei fatti che condussero al sequestro. In primo luogo, le perizie scientifiche si basavano su valori di riferimento – le migliori tecnologie disponibili nel settore – non ancora recepite nel nostro ordinamento all’epoca dei fatti. In secondo luogo, dalle testimonianze degli stessi periti emerge che, pur registrandosi la presenza di diossina e di altre sostanze inquinanti, l’Ilva rispettava tutte le prescrizioni ambientali AIA 2001 e i limiti di emissione previsti dalla legge. Se ciò fosse vero, si sarebbe verificata un’imputazione di condotte non esigibili secondo la normativa vigente, il che minerebbe lo stesso valore dell’AIA come strumento di tutela dell’ambiente e delle imprese.” Calava così il sipario sull’Ilva privatizzata, passata sotto la gestione di tre commissari straordinari – Piero Gnudi, Corrado Carrubba ed Enrico Laghi – nominati dal ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi. Fu l’inizio del lungo e mai risolto rapporto tra fabbrica e città: una frattura che dura ancora oggi. Se si facesse un sondaggio, la maggioranza dei tarantini sceglierebbe la chiusura dello stabilimento: una sorta di “Bagnoli 2.0”. Sarebbe la fine sia della siderurgia italiana sia dell’occupazione, che al 31 gennaio 2025 conta 9.973 dipendenti totali, di cui 7.964 solo a Taranto. Chi ha proposto la chiusura dell’Ilva ha sempre sostenuto che sarebbe arrivato “ben altro”; ma a Taranto sono arrivati solo cassa integrazione e crisi economico-sociale.

Chiudere l’Ilva conviene a troppi, in Italia e all’estero. I governi passati e quello presente hanno avallato la deindustrializzazione, incapaci di definire una politica industriale. In concreto, alcune istituzioni di ogni ordine e grado si sono permesse il lusso di dire la loro, dando lezioni ex cathedra sull’industria siderurgica e sull’ambiente, sull’onda del populismo della “decrescita felice”. Dopo la chimica, ora tocca all’acciaio e all’auto. Taranto ha una geopolitica, un ecosistema e una popolazione che meritano una visione diversa da questo declino. Vale la pena ricordare, in breve, l’operato dei tre commissari: il loro impegno si concentrò sulle bonifiche, trascurando la manutenzione. Le risorse furono limitate e gli impianti rimasero sostanzialmente quelli dell’epoca Riva. Alla fine del 2015 si aprì il dibattito sulla vendita dell’Ilva, con un bando prorogato dal ministro Guidi il 4 gennaio 2016. Si delinearono due cordate concorrenti: AcciaItalia, composta dal gruppo indiano Jindal, Arvedi, Delfin (la finanziaria di Leonardo Del Vecchio, proprietario di Luxottica) e Cassa Depositi e Prestiti; e AM InvestCo, promossa da ArcelorMittal e Marcegaglia. Nel 2017, con il governo Gentiloni e il ministro Carlo Calenda, ArcelorMittal, attraverso la società AM InvestCo Italy, acquisì i rami d’azienda dell’Ilva con un contratto di affitto e obbligo di acquisto, impegnandosi a realizzare il piano ambientale entro il 2023. Nel novembre 2018 divenne ufficialmente proprietà di ArcelorMittal, assumendo il nome di ArcelorMittal Italy. Le vecchie insegne Ilva vennero rimosse. Amministratore delegato fu nominata Lucia Morselli, “lady di ferro” che gestì l’azienda con un ristretto inner circle. Calenda provò a formulare un nuovo progetto: 10.000 assunzioni, 1.500 trasferimenti in una nuova società partecipata da Invitalia e la copertura dei parchi minerali per eliminare i Wind Days. I sindacati rigettarono la proposta, ma i parchi furono comunque costruiti. Il privato Mittal, con la Morselli, non diede rilancio né resilienza allo stabilimento: la manutenzione rimase precaria e le relazioni industriali pessime. Il 7 agosto 2019 il Consiglio dei Ministri del governo Conte, su proposta di Luigi Di Maio, reintrodusse l’immunità penale, poi di nuovo abrogata. Da allora, l’esimente non esiste più.

Quando si parla di industria, non bastano i decreti: servono professionalità e know-how, virtù rare in questi anni. Nel 2021 nacque Acciaierie d’Italia, con l’ingresso di Invitalia (32%) e ArcelorMittal (68%). Tra il 2022 e il 2023, la produzione crollò sotto i 3 milioni di tonnellate: lo stabilimento, per restare in equilibrio economico, dovrebbe produrne almeno 6 milioni di tonnellate. Con il governo Meloni, nel 2023, il ministro Urso emanò un decreto che consentiva anche alla minoranza societaria di chiedere il commissariamento per insolvenza. L’11 settembre fu firmato un memorandum of understanding – rimasto segreto – che prevedeva investimenti per 4,62 miliardi, di cui 2,27 pubblici. Invitalia dichiarò di non conoscere la reale situazione debitoria né la capacità produttiva dello stabilimento. Così il ministro Urso nominò tre nuovi commissari: Giancarlo Quaranta, Davide Tabarelli e Giovanni Fiori.Oggi il panorama dello stabilimento siderurgico è desolante: solo l’Altoforno 4 è in funzione, e a regime minimo.

Le risorse arrivano col contagocce, si produce in perdita e la manutenzione è precaria. Un incendio ha fermato anche l’Altoforno 1, subito sequestrato dalla Procura. A Taranto la magistratura è inesorabile, troppo interventista nelle questioni industriali. La scomparsa della chimica, dovuta anche all’azione delle procure, ha provocato danni enormi: oggi l’Italia è importatrice, mentre un tempo era esportatrice. Dopo i due bandi del 2024 e del 2025, l’unica carta rimasta è la statalizzazione con la decarbonizzazione: tre forni elettrici e un polo DRI per la produzione del preridotto. Facile a dirsi, difficile a farsi. Lo sciopero resta l’unico strumento che i lavoratori hanno per far sentire la loro voce.

Palazzo Chigi ascolti questo urlo – come quello di Edvard Munch – sempre più flebile, ma ancora carico di dignità e di speranza per una rinascita industriale che restituisca a Taranto la sua identità e il suo futuro.

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