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l'avvocato
05 Marzo 2025 - 12:47
La Banca d’Italia, con comunicazione del 30 gennaio 2015, ha definito le criptovalute come “rappresentazioni digitali di valore non emesse da una banca centrale o da un’autorità pubblica”
Argomento di stretta attualità e di continua riguarda criptovalute e blockchain: dal suo funzionamento all’utilizzo in campi quali sicurezza e cybercrime ma anche privacy e copyright. Appare utile dunque concentrarsi sui rischi di reato che possono correre vari soggetti che, a diverso titolo, si interfacciano con i Bitcoin o con altre forme di criptovaluta. Innanzitutto, è opportuno accennare alle definizioni di valuta virtuale che sono state recepite nel nostro ordinamento. La Banca d’Italia, con comunicazione del 30 gennaio 2015, ha definito le criptovalute come “rappresentazioni digitali di valore non emesse da una banca centrale o da un’autorità pubblica”. Il D.Lgs. 125/2019, attuativo della V Direttiva UE Antiriciclaggio, ha invece dettato una prima definizione legislativa di valuta virtuale, intesa come “la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”; non viene, però, considerata alla stregua di una “moneta”: essendo priva del potere liberatorio, un creditore potrà sempre rifiutare di ricevere un pagamento in criptovalute. Venendo ai rischi, in ragione della caratteristica di “pseudo anonimato” dei Bitcoin e dei suoi consimili (che sostanzialmente impedisce l’identificazione dei soggetti e la tracciabilità delle operazioni sottostanti), si è posta innanzitutto l’attenzione sulle possibili attività di riciclaggio, autoriciclaggio, e impiego di denaro, beni o altre utilità di provenienza illecita. Trattasi di reati, previsti dal nostro codice penale, che aggrediscono le condotte successive alla commissione di un reato e che sono commesse da coloro che intendono reinvestirne i profitti in attività lecite, con la conseguente contaminazione del mercato. Più in generale, bisogna accennare al concetto di cyberlaundering (cyber riciclaggio) fenomeno più ampio rispetto al riciclaggio compiuto attraverso le criptovalute e consistente nell’insieme di attività illecite poste in essere col fine di “ripulire” i proventi delittuosi, ricorrendo a sistemi “cibernetici”. Nell’ambito di tale manifestazione criminosa si può, a questo punto, tratteggiare la differenza tra “riciclaggio digitale strumentale” e “riciclaggio digitale integrale”. Mentre nel primo caso la rete viene utilizzata per porre in essere le operazioni di laundering, che si svolgono secondo il classico schema, nel secondo, invece, tutte le fasi di riciclaggio avvengono attraverso transazioni online in forma anonima e fuori da un penetrante controllo delle autorità statali. Al fine di scongiurare, o quantomeno ridurre, i sopracitati rischi, con la IV e la V Direttiva UE Antiriciclaggio, recepite rispettivamente con il D.Lgs. 90/2017 e con il già citato D.Lgs. 125/2019, sono stati previsti specifici obblighi nei confronti dell’exchanger (cambiavalute di Bitcoin et similia, definiti come “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da, ovvero in, valute aventi corso legale o in rappresentazioni digitali di valore, ivi comprese quelle convertibili in altre valute virtuali nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute”, art. 1, c.2, lett. ff, D.Lgs. 231/2007) e del wallet provider (gestori di portafogli virtuali, definiti come “ogni persona fisica o giuridica che fornisce, a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi di salvaguardia di chiavi crittografiche private per conto dei propri clienti, al fine di detenere, memorizzare e trasferire valute virtuali”, art. 1, c.2, lett. ff-bis), entrambi inseriti nella categoria “altri operatori non finanziari”). Tali soggetti, pertanto, sono oggi tenuti all’adempimento degli obblighi di adeguata verifica della clientela, tra i quali l’identificazione del cliente e del titolare effettivo (artt. 17 ss. D.Lgs. 231/2007), alla conservazione dei documenti, dei dati e delle informazioni raccolte (artt. 31 ss.), nonché alla segnalazione di operazione sospetta alla Unità di Informazione Finanziaria per l’Italia (UIF). A prescindere da un effettivo concorso nelle attività di riciclaggio, pertanto, exchanger e wallet provider incomberanno in una specifica responsabilità penale anche solo in caso di violazione dei predetti obblighi (art. 55) senza considerare il rischio di integrare le fattispecie di abusivismo bancario e finanziario, per omissione degli adempimenti di comunicazione e iscrizione (anche se non è ancora stato emesso il decreto del MEF che dovrà istituire la sezione speciale del registro dei cambiavalute virtuali). A parte l’estorsione, inoltre, tutte le condotte illecite che possono essere poste in essere con le criptovalute, costituiscono anche reati presupposto della responsabilità delle persone giuridiche. Ciò significa che, oltre all’autore del delitto, anche la società che ne ha tratto un profitto o un vantaggio sarà sottoposta a invasive sanzioni (pecuniarie, interdittive…), salvo che non abbia adottato ed efficacemente attuato un adeguato modello di organizzazione e di gestione.
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