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La Giornata contro la violenza sulle donne

Imparare ad amarsi

Il patriarcato e il rischio stereotipo

Innamorati

Imparare ad amarsi è un percorso di vita

Stiamo correndo un rischio: quello che questa Giornata contro la violenza sulle donne venga trasformata in un gigantesco contenitore di stereotipi. Uno su tutti sembra aver preso il sopravvento in queste settimane sconvolte dal brutale omicidio di Giulia Cecchettin: addossare la responsabilità dei femminicidi al patriarcato. Lo ha scritto senza mezzi termini Massimo Ammaniti su Repubblica: «Il patriarcato non c’entra». Piuttosto bisognerebbe indagare sulla fragilità dei ruoli, sulla perdita di identità in un mondo che corre velocemente e nel quale le relazioni sociali sono così fluide e labili che spesso diventa difficile gestirle; sulla debolezza e rozzezza di certi uomini che non riescono a reggere il confronto con donne più evolute. 

Il rischio è che si commetta un errore metodologico enorme: contestualizzare la bestialità di certi episodi attuali in una Italia che non esiste più. Non siamo nel Paese degli anni ’50, dove, sì, la famiglia aveva ancora una rigida impostazione patriarcale. Gli anni Sessanta, con l’affermarsi della cultura dell’emancipazione femminile e della rivoluzione giovanile, hanno rotto quegli schemi. Da allora l’Italia è cambiata, seppure ci sia ancora molto cammino da fare e sebbene, indubbiamente, persistano sacche di arretratezza culturale e quindi anche di mentalità patriarcale talvolta accettata persino dalle stesse donne. Retaggi che possono anche avere un ruolo, ma certamente non predominante nello spiegare la barbarie dei femminicidi. Siamo quindi sicuri che tutto il problema vada esaurito nell’ottica del patriarcato? Francamente non sembra che oggi questo Paese sia dominato dalla figura del padre-padrone che detta legge e determina in modo oppressivo la vita delle donne riducendole in schiavitù e decretandone finanche la morte. Fare quindi del patriarcato il nemico dell’Italia del 2023 appare un anacronismo, un portare indietro le lancette del tempo e della storia, un artificio che rischia di compromettere le strategie per combattere la violenza di genere: se si sbaglia l’analisi, si sbagliano anche le soluzioni. Un aspetto non trascurabile in un momento in cui si stanno varando norme per combattere proprio questo tipo di violenza. I fatti di cronaca ci dicono che la violenza esercitata sulle donne non ha discriminanti tra ceti sociali e livelli di istruzione: un dato che meriterebbe una riflessione più attenta rispetto a conclusioni piuttosto sbrigative. È dunque fondato il dubbio che il problema non risieda - o non risieda del tutto - nella mentalità patriarcale, più tipica delle sacche di arretratezza culturale, ma altrove.

Non sarebbe allora più utile, invece che bersagliare lo stereotipo del patriarcato, indagare sulla concezione stessa del rapporto di coppia? Su una concezione malata del rapporto di coppia? Non sarebbe forse più utile combattere quella morbosa idea possessiva della relazione, nella quale l’altra o l’altro sono concepiti in termini di possesso se non addirittura di proprietà? Non sarebbe forse il caso di educare all’idea che un amore così come nasce possa anche finire e di mandare in archivio l’idea che un rapporto debba necessariamente essere per sempre, per tutta la vita? Non può essere che proprio questa mentalità della quale siamo impregnati possa far diventare opprimente una relazione dalla quale non ci si riesce a staccare anche quando la spinta affettiva e sentimentale si è esaurita? E non può essere che proprio questa idea del “per sempre”, associata a quella insana del possesso/proprietà dell’altro/a, possa poi far esplodere – nelle menti più deboli e più violente – la brutalità della quale troppe volte siamo costretti a raccontare nelle cronache quotidiane?

L’amore tra due persone è incontro, complicità, arricchimento reciproco, rispetto, lealtà. Una relazione fondata sull’amore non può essere derubricata ad un rapporto di possesso/proprietà e non può nemmeno essere legata ad una idea di eternità. Non può essere un lucchetto, come ha scritto giorni fa Gramellini sul Corriere della Sera. Intendiamoci, beati coloro i quali incontrano l’amore della vita per tutta la vita, ma la realtà ci dice altro. Purtroppo. È su questi aspetti che forse sarebbe più utile agire, evitando di inchiodare l’Italia - e il chiassoso dibattito che sta deflagrando in queste settimane - ad una idea di società superata da almeno settant’anni. 

Qualche anno fa, al Festival di Sanremo, Ornella Vanoni cantò una canzone tanto struggente quanto illuminante. Diceva: «Bisogna imparare ad amarsi in questa vita/Bisogna imparare a lasciarsi quando è finita/E vivere ogni istante fino all’ultima emozione». Ecco, forse insegna più questa canzone di tante analisi che abbiamo letto e ascoltato in questi giorni.

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