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post alluvione Emilia Romagna

Un’apocalisse di acqua e fango, ma noi non ci arrendiamo

La testimonianza di un tarantino che vive e lavora a Faenza

Alluvione Faenza

I “Burdèl de paciúg”, cioè i “ragazzi del fango”. Andrea, grottagliese, e il piccolo Nico, romagnolo, due diverse generazioni con un obiettivo comune: aiutare chi ha perso tutto

«Non chiamatelo maltempo! È stata un’apocalisse di acqua e fango. In poche ore è caduta la pioggia di sei mesi. Molti di noi hanno perso tutto. La casa, la macchina e purtroppo alcuni la vita. Io mi reputo fortunato, non ho avuto danni e la mia casa non si è allagata. Ma amici e colleghi sono stati travolti dall’inondazione».

Raggiungiamo telefonicamente un giovane tarantino trasferitosi in Romagna, da circa dieci anni, per motivi lavorativi.

Ha lasciato il suo paese natio, Grottaglie, per approdare in un’altra Città delle Ceramiche, Faenza, oggi, purtroppo, fra i comuni più colpiti dall’alluvione del 16 maggio.

Come molti giovani del Sud, anche Andrea, 37 anni, impiegato, fa parte di quella folta schiera obbligata a lasciare la propria terra d’origine, tanto bella quanto arida di opportunità lavorative.

La Romagna lo ha adottato, pianura fertile e vigorosa messa a dura prova in questi giorni da una natura ostile, che appare impazzita. In realtà, frutto di un cambiamento climatico in corso, in un gioco delle parti con l’uomo, in cui non ci sono vincitori, ma solo sconfitti.

La voce di Andrea è bassa, rotta dalla stanchezza e dal dolore, un dolore profondo che permane, come il fango che inesorabilmente ricopre quella città che è stata così ospitale con lui.

In questo momento, ci racconta che è assieme ai suoi amici. Stanno cercando di spalare, con i pochi mezzi a disposizione, melma e detriti, rimasti dopo l’ondata distruttrice delle scorse notti. Le vie del centro, raduno di mercatini e aperitivi di piazza, adesso sono solo un grigio pantano. Nelle botteghe, le mani sapienti dei maestri ceramisti non modellano più argilla, raccolgono fango. Sui marciapiedi non ci sono più file di biciclette e passanti che guardano le vetrine, ma pile accatastate di mobili distrutti e case sventrate che rigettano ancora acqua.

I cumuli di vari materiali e oggetti accatastati ai margini delle vie di Faenza

«Sembra di essere in uno di quegli scenari da film americani sulle catastrofi ambientali. Quelli che guardi seduto sul divano sicuro che una cosa del genere non potrebbe mai accadere. È invece è accaduto. Questa è vita vera! Non puoi cambiare canale se la scena ti infastidisce o ti fa paura».

Cerchiamo di ripercorrere con lui quei momenti di panico della notte scorsa. L’angoscia, la pioggia incessante, l’acqua che aumenta, non si arresta e ingoia tutto: strade, case, macchine, perfino sventurati animali di quartiere che non riescono a mettersi in salvo. L’acqua arriva con forza, senza chiedere il permesso e trasforma Faenza in un lago di desolazione e lacrime, da cui emergono solo le tegole dei tetti e le sommità degli alberi.

«Non sono il tipo che si impressiona facilmente, ma quella notte non ho chiuso occhio. Avevo le palpitazioni. Il timore che il fiume potesse raggiungere la mia casa a piano terra. Anche se non sono stato colpito dall’acqua direttamente, le emozioni mi hanno invaso! La paura ti mangia. La paura di non poter fuggire altrove. Mezza città era al buio, sentivo solo l’elicottero dei soccorsi e il rumore della pioggia battente».

Il suo tono durante l’intervista è come questo maggio instabile, altalenante. Alterna fasi di rabbia a quelle di sconforto. D’altronde i suoi occhi hanno visto ciò che non avrebbero mai voluto vedere.

«Una città distrutta come se fosse stata bombardata, i luoghi della nostra quotidianità stravolti, volti devastati di gente che ha perso ogni cosa, ma che vuole rialzarsi il prima possibile».

E ci ricorda che, quando accadono eventi di una tale portata, c’è sempre un prima e un dopo:

«Non ho avuto ancora il coraggio di andare al Palacattani (il palazzetto dello sport che ospita centinaia di sfollati, ndr). La nostra squadra di calcio a 5 spesso giocava lì le partite di campionato. Prima, era un luogo che accoglieva gente in festa e tifoserie varie, adesso c’è solo gente amareggiata, triste, denudata… non spoglia di vestiti, ma priva di sereni sentimenti. Sembrano nudi. Alcuni non hanno più una casa, altri invece non potranno tornarci a breve».

L’esterno del palasport è diventato il cimitero degli oggetti irrecuperabili. Ad un occhio distratto e poco empatico potrebbe apparire come un’enorme discarica a cielo aperto, destinata ad aumentare di giorno in giorno. In realtà, non sono rifiuti, ma ricordi di una vita, di più vite. Album di famiglia, libri, vestiti ormai ricoperti di fango, elettrodomestici o mobilio acquistati con sacrificio a rate, svariati oggetti dal valore affettivo persi per sempre… 

Ma una cosa fra tutte non è andata persa: la dignità e la voglia di reagire.

«Vedere tanta gente, soprattutto giovanissimi, accorsi anche da fuori regione, impegnati ad aiutare degli sconosciuti per ore e fino allo stremo, riempie il cuore di speranza. Anch’io sono qui con loro. Perché anche se stanchi, la voglia di dare una mano è tanta.»

Molto è stato fatto, ma molto altro ancora c’è da fare. Adesso non c’è spazio per la polemica. Non c’è il tempo. I momenti di riflessione su ciò che si sarebbe potuto fare per prevenire o limitare questa catastrofe verranno dopo.

«Adesso è il momento di rimboccarsi le maniche e di ritornare ad una parvenza di normalità. I romagnoli sono così, non si fanno travolgere dallo sconforto. Tra una battuta sarcastica e l’altra, cercano di sollevare gli animi e si incoraggiano a vicenda»

Riprende fiato e con un tono più forte e conciso sottolinea:

«Sapete qual è il detto che sento spesso ripetere in questi giorni? Tìn Bota Romagna”, cioè Romagna tieni botta, non mollare. Quindi, noi non molliamo! Faenza non molla! …perché sa che ritornerà più bella e più forte di prima!»

E noi, da Taranto, ve lo auguriamo con tutto il cuore.

Il motto di incoraggiamento, tipico dello spirito romagnolo

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