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La ricorrenza
01 Maggio 2023 - 11:15
Correva l’anno 1922, la primavera faceva sentire il suo primo tepore. Mancavano pochi giorni al primo maggio, la festa del lavoro, la festa di tutti i lavoratori. No, non era un buon momento quell’anno per i lavoratori, il fascismo stava vincendo, le squadracce armate battevano il territorio, gli attivisti erano aggrediti, le sedi sindacali e politiche assaltate, le redazioni dei giornali democratici devastate. Già molti democratici erano stati feriti ed uccisi, persino i municipi erano stati occupati a viva forza.
Si respirava l’aria pesante della sconfitta della democrazia. Eppure non tutti l’avevano capito. Nel giovane stato italiano con i suoi 60 anni di storia la violenza politica non era una novità. Le classi dirigenti erano abituate ad usare la mano forte. Tutti ricordavano il cannone usato da Bava Beccaris a Milano. Nel Mezzogiorno il ceto dei grandi latifondisti terrieri conservava un rapporto di patronato nei confronti dei braccianti che solo con la guerra mondiale avevano scoperto di poter essere una collettività. Tuttavia tra i braccianti e gli agrari si interponeva una forza di picchiatori prezzolati e di guardiani armati reclutati nella malavita. L’on. De Bellis di Gioia del Colle, per esempio, era un liberale, un laico che pure si era espresso in alcune battaglie civili come l’introduzione del divorzio, e tuttavia le sue squadracce erano note in Puglia per la violenza ed i soprusi.
Una parte dei “galantuomini” professionisti e proprietari terrieri pensava che un po’ di fascismo sarebbe bastato a lavare le teste calde dei socialisti, e poi li si sarebbe fatti rientrare nei ranghi. In parte andò così, ma in verità ciò avvenne non sciogliendo le fila del movimento eversivo, ma facendo entrare i “galantuomini” nelle file del fascio, e quando il fascismo prese il potere i picchiatori ne persero la direzione sostituiti dagli antichi liberali e massoni, come si trovò a scrivere Tommaso Fiore nelle corrispondenze che inviava a Piero Gobetti. A Taranto questa fase fu particolarmente convulsa le squadre fasciste erano agguerrite e violente, nel movimento operaio si comprese, seppure in ritardo che la battaglia in corso, era diventata una battaglia per la vita. Per questo la celebrazione della festa del 1 maggio rivestiva un particolare valore. Festeggiare il primo maggio significava più che resistere, significava continuare ad esistere. Per questo, nonostante tutto, giovani militanti socialisti e comunisti decisero di uscire con il favore dell’oscurità armati di vernici e pennelli per riempire la città di scritte inneggianti al primo maggio. Scrivere su un muro “W IL PRIMO MAGGIO” significava dire: ci siamo ancora ed aggiungere “W LA RIVOLUZIONE” ,significava dire le vostre vittorie sono provvisorie ma alla fine, come ripeteva il loro canto, “..bandiera rossa trionferà”.
La sera del 28 di aprile alcuni giovani poco più che ragazzi erano usciti a tracciare delle scritte sui muri e sul marciapiedi, erano circa le 22,00 quando nella zona di Porta Napoli, si fermarono un attimo a guardare il risultato del loro lavoro, furono sorpresi ed aggrediti alle spalle da un gruppo di fascisti armati. L’edizione romana de “L’AVANTI” giorni dopo, così ricostruì l’episodio: i fascisti tutti armati di rivoltella gridarono “ – a finalmente vi abbiamo sorpresi. Adesso vi romperemo il c.” Subito dopo aprirono il fuoco. Uno dei fascisti Adolfo Mellone vedendo a terra il giovane ventiduenne Francesco Spinella che cercava di salvarsi fingendosi morto, calpestandolo urlò “..e uno!”. Gli altri ragazzi tentarono di scappare ma arrivati in Piazza Fontana trovarono un altro gruppetto di fascisti capeggiati dal pizzicagnolo Gambardella, “eroe sempre impunito di diverse spedizioni”, che diedero loro il colpo di grazia scaricando su di essi le proprie rivoltelle. Terminata la spedizione i fascisti scapparono e da via Garibaldi si dispersero inoltrandosi nei vicoli della città vecchia. Secondo alcuni testimoni, avventori di un bar della zona, tra i primi colpi e gli ultimi dopo l’inseguimento dei ragazzi, erano trascorsi circa venti minuti. Solo quando tutto era finito comparvero carabinieri e guardie regie.
A terra erano rimasti due feriti gravi, Indino Pietro di Vito, un ragazzo di 23 anni che faceva il capraio, e Giuseppe Migliarese di 22 anni, figlio di Roberto un ferroviere iscritto al Partito socialista. Quest’ultimo ferito gravemente si era trascinato, in qualche modo, sino a largo san Nicola, dove alcune donne gli avevano dato i primi soccorsi, fatto bere un po’ d’acqua e con l’aiuto di alcuni cittadini accorsi alle grida lo avevano sistemato su un camion militare. Trasportato in ospedale verso le 3,30 di notte era spirato tra le braccia del padre e della giovane moglie. La coppia aveva già due figli e la donna ne aspettava un terzo. L’aggressione, questa volta aveva turbato profondamente la città per la sua efferatezza. Diversi testimoni avevano visto lo svolgersi dei drammatici avvenimenti e potevano fornire testimonianza. L’Avanti riportava anche come notizia, seppure incerta, la presenza di altri feriti, meno gravi, che avevano preferito, per timore, di farsi curare di nascosto.
La questura e la stampa locale, paiono intenzionati a minimizzare la portata dell’accaduto. Si cerca anche di dare appigli ed attenuanti agli aggressori, qualcuno racconta (o scrive?) di un ciclista fascista malmenato, che avrebbe innescato la reazione armata. Vengono interrogati gli avventori dei bar Taranto ed Alpino per individuare i responsabili. Si discute con una rappresentanza dei ferrovieri che vorrebbero esequie pubbliche, per onorare la memoria del figlio del loro compagno, mentre la questura vorrebbe fossero private. In quella occasione Gravina, un ferroviere che abitava in piazza Fontana riferisce di aver visto dalla finestra di casa, Gambardella ricaricare la propria pistola dopo aver fatto fuoco. Nonostante la testimonianza il Gambardella non era stato ancora arrestato, ed il corrispondente avanzava il timore di un depistaggio che magari avrebbe dato la colpa al capraio, all’altra vittima dell’aggressione, inventando magari questioni di donne. Di tutt’altro tenore è la cronaca che dell’episodio fa il periodico governativo “La provincia di Lecce“ che faceva partire la notizia nel seguente modo: “A Taranto un morto e un moribondo: La festa del 1° Maggio è trascorsa tranquillamente. La città era quasi tutta imbandierata e i teatri e i caffè furono animatissimi. Ciò forse, deve anche attribuirsi alle misure adottate per mantenere assolutamente il buon ordine, dopo il doloroso incidente verificatosi due sere prima”. Quindi un apprezzamento iniziale delle forze dell’ordine cui faceva seguito una stringata ricostruzione dei fatti minimizzando il senso politico dell’episodio: “Giunti i suddetti nei pressi dei Magazzini Generali, improvvisamente e fulmineamente, sparati da sconosciuti, molti colpi di rivoltella echeggiarono, alcuni dei quali raggiunsero il Migliarese e l’Intini, che caddero al suolo in una pozza di sangue, colpito il primo al cuore l’altro all’inguine”.
L’articolo, pubblicato a maggio inoltrato, dà atto anche di due arresti avvenuti giorni dopo Andrea Gambardella e Goffredo Bianco “ritenuti indiziati come autori del delitto”. Nessun riferimento all’appartenenza, per altro di pubblico dominio, dei due, alle squadre fasciste. Gli arresti comunque si allargarono, vengono arrestati anche Amedeo Giusti ed Adolfo Mellone. Da parte fascista parte una campagna politica per la loro liberazione. Se ne fa carico il periodico di satira politica “Il vispo Panarijdduzze“ diretto da Innocenzo Cicala, ferroviere anarco sindacalista che da un po’ era passato nelle file fasciste, nel numero del 18 giugno il titolo dell’articolo di fondo è “Liberiamo i nostri camerati” “Sarà da oggi la nostra parola d’ordine, o fascisti. Il nostro fratello di fede Giusti Amedeo, il valoroso comandante delle nostre squadre d’azione è in carcere da 40 giorni e con lui, il comandate della Disperata Goffredo Bianchi, decorato con due medaglie al valore militare, il simpatico Mellone Adolfo, e l’anima candida e fanciullesca di Andrea Gambardella”.
Quanto fosse simpatico Adolfo Mellone lo testimonia il racconto de L’Avanti, ed in quanto all’anima di Gambardella era così candida che il suo stesso padre, per salvare la propria drogheria dal fallimento qualche mese dopo dovette diffidare i creditori dall’accettare ordini o attività economiche del figlio. L’articolo insiste dichiarando false le accuse e le testimonianze, ed affermando che i quattro avevano “provato” di trovarsi altrove nel momento dei fatti, e che anzi gli stessi dovessero essere il frutto di una rissa tra i comunisti e gli anarco sindacalisti. “I fascisti non possono ne devono tollerare che i fratelli carcerati subiscano ancora una detenzione preventiva così lunga e tediosa. L’istruttoria non è ancora chiusa, perché ancora tante lungaggini? Chi aspetta? La magistratura non può e non deve dimenticare il periodo del terrore rosso Cagoiano: I salvatori della nazione, gli eroici pionieri della nostra e della vostra libertà, i giustizieri d’una causa santa non debbono marcire più oltre nelle Patrie galere. Li vogliamo fuori per continuare la lotta ad oltranza”.
Ciò nonostante la detenzione continuò per qualche tempo ed allora Amedeo Giusti decise di avviare uno sciopero della fame inutilmente. La liberazione dei quattro comunque avvenne solo qualche mese dopo, quando il fascismo con la marcia su Roma prese il potere. Il processo per l’omicidio Migliarese si poté fare solo nel dopoguerra.
Mario Pennuzzi
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