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Manzoni e la sua universale “Pentecoste”

Alessandro Manzoni

Alessandro Manzoni

Nei giorni scorsi la Chiesa Catto­lica ha celebrato, presente il Pon­tefice Francesco, solennemente la ricorrenza sacra della Pentecoste, parola greca che significa “cin­quantesima”. Come si narra negli Atti degli Apostoli la discesa dello Spirito Santo veniva assegnata al cin­quantesimo giorno dopo la Re­surrezione di Cristo. L’inno man­zoniano “La Pentecoste” ultimo e più elaborato dei suoi “Inni Sacri”, non solo è uno dei vertici della po­esia manzoniana, ma è l’ora più solenne della stessa intuizione re­ligiosa del Manzoni. Non per altro la sua composizione fu di anni; dal giugno del 1817 al settembre del 1822 e nel tempo in cui il gran­de scrittore lombardo era intento alla prima stesura del romanzo dal titolo “Fermo e Lucia”, che, anni dopo, doveva aver per titolo, rifatto in gran parte nel suo con­tenuto, quello ormai universale de “I Promessi Sposi”. Nella Pentecoste si avverte per la prima volta il senso o la virtù della grande poesia manzoniana, vale a dire l’unità perfetta di quell’ideale calato nel reale, che è poi principio e fine del grande romanzo. L’Inno è al di sopra del 5 maggio, al di sopra del Coro di Ermengarda. E una voce alta, solenne, veramente cosmica, di quel messaggio cri­stiano agli uomini di tutte le epo­che e di tutti i continenti. È l’inno della fratellanza universale. Ricordo che il mio maestro pisa­no, Luigi Russo, nel parlare del suo Manzoni, giunto alla Penteco­ste aveva un attimo di riflessione e poi, solennemente, pronunciava il suo giudizio o commento, rapi­do ed incisivo. Nella Pentecoste Manzoni ha saputo fondere tre momenti fondamentali: quello lirico, quello meditativo e quello che si definisce oratorio; e i tre momenti preludono ai personaggi dei Promessi Sposi, Lucia, Frate Cristoforo, il Cardinale Borro­meo. Tre luci spirituali nel buio del male umano di tutti i tempi. La Chiesa con i suoi Apostoli non era la chiesa del Dio vivente an­cora; lo Spirito Santo, disceso su­gli Apostoli timorosi per l’atroce morte del Redentore, vivevano chiusi in un cenacolo, né osavano rivelare l’insegnamento del loro Maestro; insomma avevano pau­ra di conseguenze drammatiche per loro. La discesa dello Spirito Santo aprì finalmente le porte del­la parola sulle loro labbra; e così cominciò la grande predicazione apostolica. La Chiesa “Madre de’ Santi, immagine / della città su­perna: / del Sangue incorruttibile / conservatrice eterna”. La Chiesa, scrive Manzoni, da tan­ti secoli, soffre, combatte e prega nel mentre spiega le sue due tende da un mare all’altro. La Chiesa è il campo di coloro che sperano; ma, prima della discesa dello Spi­rito Santo, era chiusa, raccolti gli Apostoli nelle mura di un angolo remoto. Fra la luce divina, la paura del sacro fuoco di fede e di amo­re fraterno ad illuminare la mente dei discepoli e, al tempo stesso, a dare loro “la voce dello Spiro”. Fu un miracolo; anzi il Miracolo. Gli apostoli divennero gli uomini di Cristo, i difensori della Sua paro­la divina, i martiri della Fede che vinceva, nei secoli, il tempo. Il Vangelo diventava Provvidenza; la Provvidenza giustizia; e l’inno, da quel rievocare la fiamma pen­tecostale, diventava nel Manzoni, con accenti commossi e consola­tori, una solenne preghiera, non solo per i cristiani, ma per tutti gli uomini, per tutte le genti sparse per tutti i continenti della terra. Diventava, democraticamente, una voce universale, cosmica. Non era solo il Cristianesimo il campo della speranza: era la Chiesa del Dio vivente. Quella luce entrava nel seno delle madri generatrici dei figli; e le Madri non avevano più colore di pelle; mai più sospiri di schiave di fronte ad altre madri più fortunate di loro perché “a tutti i figli di Eva, Cristo, nel suo dolor, pensò”. Qui l’inno manzoniano diventa veramente cosmico; la parola di Cristo non ha limiti di terra; vola dalle Ande al Libano, dall’Erina all’Haiti, vola e rimane in tutti i lidi ove siano infelici, anime spen­te, cuori distrutti, libertà soppres­se. L’inno diventa universale; Man­zoni “implora” lo Spirito Santo perché scenda a confortare gli uo­mini, a sgomentare i potenti, i vio­lenti, tutti coloro che sono gonfi di superbia e di cupidigia portatori di guerre e chi ha la fortuna di esse­re più ricco di altri, doni con volto amico e con un pudico silenzio. Le ultime strofe, tutte come le altre, di settenari compositi, toc­cano il vertice della poesia che va oltre la poesia stessa; diventa voce dell’Eterno nostro vivere, dai bambini ai giovani, da donne prossime madri a uomini dal for­te e generoso impegno. E, infine, l’ultima voce fraterna è per coloro che non sono più giovani perché possano, nell’ultimo sguardo alla vita, conciliarsi con Dio, Padre di tutte le genti. Manzoni nella Pentecoste che un tempo si commentava nelle scuo­le superiori e si portava gli esami di Stato, ha creato, come scrisse De Sanctis, il punto più alto della meditazione sulla vita umana nel tempo e di tutti i tempi. Se rievoco Manzoni è perché senza di Lui, e lo dico a tutti gli anemici intelletti odierni, non si può comprendere cos’è oggi la fratellanza e nemmeno si potrà comprendere la vera essenza del Cristianesimo, oggi, in più sfere, emarginato.
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