Nei giorni scorsi la Chiesa Cattolica ha celebrato, presente il Pontefice Francesco, solennemente la ricorrenza sacra della Pentecoste, parola greca che significa “cinquantesima”. Come si narra negli Atti degli Apostoli la discesa dello Spirito Santo veniva assegnata al cinquantesimo giorno dopo la Resurrezione di Cristo. L’inno manzoniano “La Pentecoste” ultimo e più elaborato dei suoi “Inni Sacri”, non solo è uno dei vertici della poesia manzoniana, ma è l’ora più solenne della stessa intuizione religiosa del Manzoni. Non per altro la sua composizione fu di anni; dal giugno del 1817 al settembre del 1822 e nel tempo in cui il grande scrittore lombardo era intento alla prima stesura del romanzo dal titolo “Fermo e Lucia”, che, anni dopo, doveva aver per titolo, rifatto in gran parte nel suo contenuto, quello ormai universale de “I Promessi Sposi”. Nella Pentecoste si avverte per la prima volta il senso o la virtù della grande poesia manzoniana, vale a dire l’unità perfetta di quell’ideale calato nel reale, che è poi principio e fine del grande romanzo. L’Inno è al di sopra del 5 maggio, al di sopra del Coro di Ermengarda. E una voce alta, solenne, veramente cosmica, di quel messaggio cristiano agli uomini di tutte le epoche e di tutti i continenti. È l’inno della fratellanza universale. Ricordo che il mio maestro pisano, Luigi Russo, nel parlare del suo Manzoni, giunto alla Pentecoste aveva un attimo di riflessione e poi, solennemente, pronunciava il suo giudizio o commento, rapido ed incisivo. Nella Pentecoste Manzoni ha saputo fondere tre momenti fondamentali: quello lirico, quello meditativo e quello che si definisce oratorio; e i tre momenti preludono ai personaggi dei Promessi Sposi, Lucia, Frate Cristoforo, il Cardinale Borromeo. Tre luci spirituali nel buio del male umano di tutti i tempi. La Chiesa con i suoi Apostoli non era la chiesa del Dio vivente ancora; lo Spirito Santo, disceso sugli Apostoli timorosi per l’atroce morte del Redentore, vivevano chiusi in un cenacolo, né osavano rivelare l’insegnamento del loro Maestro; insomma avevano paura di conseguenze drammatiche per loro. La discesa dello Spirito Santo aprì finalmente le porte della parola sulle loro labbra; e così cominciò la grande predicazione apostolica. La Chiesa “Madre de’ Santi, immagine / della città superna: / del Sangue incorruttibile / conservatrice eterna”. La Chiesa, scrive Manzoni, da tanti secoli, soffre, combatte e prega nel mentre spiega le sue due tende da un mare all’altro. La Chiesa è il campo di coloro che sperano; ma, prima della discesa dello Spirito Santo, era chiusa, raccolti gli Apostoli nelle mura di un angolo remoto. Fra la luce divina, la paura del sacro fuoco di fede e di amore fraterno ad illuminare la mente dei discepoli e, al tempo stesso, a dare loro “la voce dello Spiro”. Fu un miracolo; anzi il Miracolo. Gli apostoli divennero gli uomini di Cristo, i difensori della Sua parola divina, i martiri della Fede che vinceva, nei secoli, il tempo. Il Vangelo diventava Provvidenza; la Provvidenza giustizia; e l’inno, da quel rievocare la fiamma pentecostale, diventava nel Manzoni, con accenti commossi e consolatori, una solenne preghiera, non solo per i cristiani, ma per tutti gli uomini, per tutte le genti sparse per tutti i continenti della terra. Diventava, democraticamente, una voce universale, cosmica. Non era solo il Cristianesimo il campo della speranza: era la Chiesa del Dio vivente. Quella luce entrava nel seno delle madri generatrici dei figli; e le Madri non avevano più colore di pelle; mai più sospiri di schiave di fronte ad altre madri più fortunate di loro perché “a tutti i figli di Eva, Cristo, nel suo dolor, pensò”. Qui l’inno manzoniano diventa veramente cosmico; la parola di Cristo non ha limiti di terra; vola dalle Ande al Libano, dall’Erina all’Haiti, vola e rimane in tutti i lidi ove siano infelici, anime spente, cuori distrutti, libertà soppresse. L’inno diventa universale; Manzoni “implora” lo Spirito Santo perché scenda a confortare gli uomini, a sgomentare i potenti, i violenti, tutti coloro che sono gonfi di superbia e di cupidigia portatori di guerre e chi ha la fortuna di essere più ricco di altri, doni con volto amico e con un pudico silenzio. Le ultime strofe, tutte come le altre, di settenari compositi, toccano il vertice della poesia che va oltre la poesia stessa; diventa voce dell’Eterno nostro vivere, dai bambini ai giovani, da donne prossime madri a uomini dal forte e generoso impegno. E, infine, l’ultima voce fraterna è per coloro che non sono più giovani perché possano, nell’ultimo sguardo alla vita, conciliarsi con Dio, Padre di tutte le genti. Manzoni nella Pentecoste che un tempo si commentava nelle scuole superiori e si portava gli esami di Stato, ha creato, come scrisse De Sanctis, il punto più alto della meditazione sulla vita umana nel tempo e di tutti i tempi. Se rievoco Manzoni è perché senza di Lui, e lo dico a tutti gli anemici intelletti odierni, non si può comprendere cos’è oggi la fratellanza e nemmeno si potrà comprendere la vera essenza del Cristianesimo, oggi, in più sfere, emarginato.
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