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Virgole Golose

Il Medio Evo, l’oriente bizantino e la sua cucina

Il ruolo dell’epistola "De observatione ciborum"

Le mura di Costantinopoli

Le mura di Costantinopoli

Nel Medio Evo esistevano, grosso modo, tre grandi aree gastronomico-culinarie: quella arabo-persiana; quella “europea”, che pur con notevoli differenze nei suoi sotto-sistemi presenta numerosi tratti comuni; quella bizantina, poco nota per assenza di specifici trattati pervenutici.

Per questo assumono particolare importanza due documenti: l’epistola De observatione ciborum (prima metà del VI secolo) che in un Latino molto imbastardito il medico bizantino, esule alla corte del goto Teodorico, indirizza con consigli di dietetica (e vere e proprie ricette) ad un re dei Franchi di nome anch’egli Teodorico, con una contaminazione fra usi di cucina bizantini ed occidentali, e le relazioni stese sul finire del X secolo da Liutprando, vescovo di Cremona, che fu a Costantinopoli prima (949) come inviato di Berengario II re d’Italia; poi (968) come inviato di Ottone I, imperatore del Sacro romano impero (una dignità che Costantinopoli non riconobbe mai agli imperatori occidentali, della quale, dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, si ritenevano ormai gli unici titolari), con malevole osservazioni sulla cucina dell’Impero d’Oriente.

Molto utile anche una alquanto successiva satira di Teodoro Prodromo, un poeta del XII secolo, rivolta contro due igumeni (chi è a capo di un monastero ortodosso) del monastero di Philotheos, nella quale si descrive tra l’altro il vitto sontuoso che i due igumeni, padre e figlio, si riservano, in contrato col vilissimo e poverissimo cibo riservato agli altri monaci. In disaccordo con le tradizioni di Bisanzio, dove il garum continuò a godere di ottima reputazione fino alla caduta dell’Impero, il bizantino Antimo non ama la salsa di pesce che Greci e Romani ebbero in gran pregio; ma dalla sua testimonianza, così come da registri di spesa, sappiamo che il suo uso resisteva nel VI secolo (ed oltre) anche ad Occidente; solo che in Italia e Francia non si produceva più, lo si importava da Costantinopoli, a caro prezzo (e probabilmente a quei barbari veniva pure rifilato un prodotto di scarto).

Per il resto, la cucina di Antimo è in linea con quella apiciana (senza le complicazioni da alta cucina); molto meno con quella che ritroveremo fra XIII e XIV secolo in Europa; la “vera” cucina medievale, dove c’è anche una certa influenza araba. Vivendo in mezzo a barbari che però non può certo chiamare così, Antimo nella sua lettera al re dei Franchi con osservazioni sul cibo si destreggia fra il suo retaggio ideologico e scientifico greco (infatti scrive spesso “noi Greci”) e la necessità di non disprezzare le usanze di Goti e Franchi. Come quella di consumare lardo crudo, giustificata come una specie di ricorso alla medicina naturale più che alla gastronomia (per un greco cibarsi di carni crude è un atto più bestiale che umano), o di bere la disprezzatissima birra. Nella relazione ad Ottone dopo il fallimento della missione costantinopolitana (era andato a negoziare un matrimonio tra le due dinastie imperiali), Liutprando sfoga il suo livore per il trattamento ricevuto (lo sospettavano tra l’altro di essere una spia): definì imbevibile il vino “miscelato con pece resina e gesso”; poi fu particolarmente infastidito dal banchetto solenne del giorno della Pentecoste, dove era stato relegato dal rigido cerimoniale bizantino al quindicesimo posto, e definì la cena “turpe e stomachevole, come per ubriachi, unta d’olio, maleodorante d’aglio e cipolla, aspersa di un pessimo liquido di pesci” (il garum).

E ancora, in altra occasione, trovò sgradevole che Niceforo Foca gli avesse inviato dalla sua tavola uno dei cibi che pure erano ritenuti più raffinati “un grasso capretto, di cui egli stesso aveva gustato, lautamente farcito di aglio, cipolla e porri, irrorato di salsa di pesci marinati”. E veniamo a Teodoro Prodromo, che stende in versi, sotto il nome di un Ilarione monaco, una satirica supplica all’Imperatore perché faccia cessare gli abusi dei due igumeni, descrivendo fra l’altro i loro eccessi gastronomici. Il pranzo, a base di pesce, comprendeva per i due ben sei portate: dapprima un rombo lessato; quindi una salsa di merluzzo; terza portata, un piatto di pesci rossi in agrodolce, aromatizzati con nardo indiano, nardo celtico, chiodi di garofano, cannella, funghi, aceto e miele “da un alveare non affumicato”. In mezzo al vassoio spiccavano una triglia enorme, un cefalo con uova lungo tre spanne e un ciprino dorato. Come quarta portata arrivava un piatto arrosto, seguito dalla quinta, un fritto misto di triglie baffute, aterine, una limanda con garum insaporita con carvi e latte di lupo di mare. Infine il piatto forte, un ricco stufato servito ancora fumante. Il tutto accompagnato da una ricca scelta di vini.

Il mercoledì e venerdì i due facevano astinenza a modo loro, ripiegando su stuzzichini e leccornie in quantità accompagnate da vino dolce. Ilarione assisteva ai pranzi con i confratelli e sognava di gettarsi sulla marmitta dello stufato. Ma a loro toccava la zuppa di “brodo santo”.

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