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CINEMA: LA RECENSIONE
03 Aprile 2025 - 17:20
“Paterson”: una scena del film
Qualche tempo fa, un film fu presentato al festival di Cannes. Era il 2016, e il regista era Jim Jarmusch. Si chiamava “Paterson” e il protagonista era Adam Driver.
Il film è unico, dai toni gentili, delicati e leggeri che sembrano strizzare l’occhio a un certo modo asiatico di fare cinema e scrittura. Non per niente, alla fine del film, un poeta giapponese entra in campo, un po’ come dal nulla, atterrato su un pezzo di mondo che chiaramente non è il suo, ma anche come in qualche modo alla ricerca e chiamato da una bellezza e una poesia che non risiedono necessariamente in un luogo preciso del pianeta, quanto casomai in un luogo specifico dell’anima. Di quelle anime che sembrano vivano tutto in sordina, per poi scoprire, in realtà, che vivono tutto estremamente intensamente, così intensamente che manca loro quasi la capacità di vivere agli stessi ritmi del modernità, che non sempre consente di vivere lentamente, in modo da assorbire tutto, ma che anzi ci richiede, quasi con violenza, di aggredire la vita in modi che non ci appartengono, per non rischiare di venirne aggrediti per primi.
Un po’ di tutto questo parla Paterson, un film che prende il nome dalla omonima cittadina del New Jersey, piccola e sperduta, in qualche modo, dove un uomo di nome Paterson, anche lui, fa l’autista dei bus e scrive poesie appena ha un momento libero.
Adam Driver regala una performance adorabile, di quest’uomo dalla grande tenerezza, sposato a questa donna dalla altrettanta dolcezza, che con grande morbidezza e femminilità vuole incoraggiare il talento del marito e la sua passione.
Ma Paterson non è uno di quelli che ha bisogno della fama. I veri poeti, probabilmente, non ne hanno mai bisogno.
Lui scrive perché quello è il suo modo di connettersi con la realtà, di vederla, osservarla, rifletterla.
Le lunghe ore di lavoro sull’autobus gli regalano il silenzio necessario per osservare ed ascoltare i discorsi della gente più diversa, personaggi di un mondo che in qualche modo lui vive, ma sempre con della distanza, dall’altra parte di quello schermo che è il cristallo che separa la cabina dell’autista dal resto del bus.
Non è uno che parla molto, Paterson. Anzi, non parla praticamente mai. E’ un uomo che vive tutto dentro, e che poi riversa tutto nel “taccuino segreto”, parole che neanche alla moglie è dato di conoscere.
E’ un film che parla di semplicità, di vita quotidiana. Di piccoli problemi della vita, si, di ordinarietà non sempre facili e per niente perfette, ma proprio per questo è degno di essere apprezzato, perché in questo presenta la sua più eccezionale qualità: presentare la poesia della vita nelle piccole cose, ricercare la poesia della vita nel concreto, nell’umano, qualche volta perfino nel banale, o in quello che sembra tale.
Paterson è un film che restituisce una dolcezza del reale e delle relazioni nella loro vulnerabilità, ma una vulnerabilità sempre accolta, compresa, sempre accarezzata nella sua bellezza, come tutto bello sembra essere quello che Paterson osserva e scrive.
Non c’è giudizio in quello, ma solo un’occasione per scoprire della vita dove non necessariamente si pensava ci fosse. Nel cadere della pioggia, in una scatola di fiammiferi, nelle forme che la glassa fa sui dolci della moglie.
E’ un film dai tempi lenti e dolci, che punta il riflettore su tutto quello che ad un primo o più superficiale sguardo neanche si vedrebbe. Ma non è forse anche questa una delle funzioni più alte della poesia? Farci guardare da qualche altra parte, insegnaci a vedere qualcosa che è sfuggito al nostro sguardo?
Un film decisamente piacevole, soprattutto se volete guardarlo con chi amate, per una serata di affetto e di poesia.
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Testata: Buonasera
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