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Virgole Golose

Cucina del Seicento: l’Inghilterra

“The Accomplisht Cook, or The Art & Mystery of Cookery” di Robert May

Cucina del Seicento: l’Inghilterra

Cucina del Seicento: l’Inghilterra

Mentre la decaduta Italia, con i suoi Stati a staterelli quasi tutti, direttamente o indirettamente, sottomessi a potenze straniere, si attarda anche in cucina a riproporre, sovraccaricandoli semmai secondo il gusto barocco, piatti che furono del Medio Evo e del Rinascimento, e si dedica semmai – è tuttora fiorente l’industria del libro – a pubblicare opere sul reggimento della casa, sulle buone maniere a tavola, e ancora sulla scorta di Baldassar Castiglione (ma con ritardo ormai secolare) sulla “Lucerna de’ cortigiani (1634, Giovan Battista Crisci); sull’arte di trinciare e financo, con dovizia di belle illustrazioni, di piegare i tovaglioli, senza innovare granché, la Francia del Seicento, che si impone come la grande potenza continentale, ma anche coloniale, avvia una rivoluzione del gusto all’insegna del “metodo” (termine che al lettore post-moderno richiama immediatamente Cartesio), con la sostituzione dell’amplissimo ventaglio di spezie con le più modeste erbe aromatiche, anche attraverso il bouquet garni (il mazzetto aromatico, pratico da rimuovere), e con il prepotente ingresso nelle cucine di “brodi” (bouillon) che noi oggi chiamiamo “fondi”, e che sono la base per la preparazione di altre salse, e del roux (impasto di farina e burro, cotto a diverse temperature, base anch’esso per elaborazioni successive), e soprattutto con l’inizio della “separazione” dei sapori, rispetto ai miscugli che rendevano inidentificabili gli ingredienti di molti piatti, specie si ridotti in purea, delle epoche precedenti.

Dopo La Varenne e Massialot, depurata dagli eccessi di zucchero che ancora ne imbiancano pagine e piatti, la cucina francese si imporrà nel mondo, almeno fino al XX secolo, come la Grande Cuisine. Ma che accade altrove? E non intendiamo solo nel Nuovo Mondo. Basta attraversare la Manica, per esempio, per tornare quasi (gastronomicamente) al Medio Evo. Nel Seicento, sotto gli Stuart, si consolida il legame fra Inghilterra e Scozia, e si costruisce l’impero coloniale britannico, mentre si accentua sempre più il carattere separato dell’Inghilterra dal continente europeo. Ma il Seicento, se è un secolo che vede espandersi sui mari e nel mondo l’impero britannico, è anche quello della prima (ed unica) esperienza repubblicana britannica, sotto la spietata dittatura di Cromwell, con la successiva restaurazione della monarchia, e, falliti i tentativi di riportare l’isola nell’alveo del cattolicesimo o quantomeno di consentire la libertà religiosa (Giacomo II ci rimise il trono, i puritani e i quaccheri emigrarono o furono deportati in America), dell’instaurazione di un cesaropapismo che vede nel re, capo della Chiesa anglicana, il vero dominus della religione.

Prima di ripristinare la monarchia, tuttavia, il futuro Carlo II aveva vissuto a lungo in Francia, e questo introdusse, quando ascese al trono, qualche elemento di novità nella statica, ultra-tradizionalista cucina britannica, peraltro ostinatamente fedele ai grandi arrosti (anche di carni altrove disusate, come il cigno), serviti con pesanti intingoli ed ai pasticci con ripieni tritati. Qualche cauta concessione a ricette (e modalità di cottura) straniere si ritrova per esempio nel manuale di Robert May, il primo vero e proprio testo di culinaria inglese dopo il tardo-trecentesco The Forme of Cury (che peraltro non era entrato nel reale bagaglio dei cuochi, e sarebbe stato “riscoperto” come curiosità erudita e dato alle stampe solo alla fine del Settecento, laddove ricette si trovavano sparse semmai in opere di economia domestica, come The English Housewife, del 1615, autentico best seller del ‘600 inglese, più volte ristampato): si intitola The Accomplisht Cook, or The Art & Mystery of Cookery (il Cuoco Perfetto, ovvero Arte e Segreti della Cucina), pubblicato nel 1660, l’anno della restaurata monarchia. Come Carlo II, anche May (figlio d’arte, era stato cuoco anche suo padre) aveva soggiornato a Parigi, dove aveva iniziato il proprio tirocinio.

Tornato in patria, pur conservando qualche ricordo delle cucine continentali – cita in apertura del libro la spagnola olla podrida, tradotta in Inglese come olio, lo stoffado, ovvero l’arrosto in pentola, tipicamente continentale, e i vari tipi di quelque shose, deformazione del francese quelque chose, ovvero una cosarella, per quanto elaborata, da servire come intermezzo (altro termine inglese di cui si avvale May è kickshaws, che ha il duplice significato di leccornia ma anche di inezia). Rivolto ai “colleghi cuochi”, il manuale di May è al servizio soprattutto “di coloro le cui borse non possono permettersi il costo di vivande troppo elaborate”, dichiarando quindi di essersi “adeguato alle loro limitate risorse”. Insieme con ricette di arrosti e pasticci, nonché di granchi e frutti di mare, May dedica – cosa insolita, per l’epoca – un intero capitolo alle insalate (beninteso, non esclusivamente vegetali); e per influenza italiana e francese ricette di asparagi al burro, torta di spinaci, cetrioli in salamoia.

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