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L'approfondimento

Continua il viaggio nella cucina futurista

Da Jules Maincave a Marinetti

Continua il viaggio nella cucina futurista

Continua il viaggio nella cucina futurista

AAl grido di “abbasso la pastasciutta, evviva il carneplastico!” i futuristi partirono all’inizio degli anni Trenta all’assalto dell’ultimo fortino del tradizionalismo passatista. In realtà, ci avevano provato, ma disorganicamente, ben prima: il francese Jules Maincave, quasi in risposta ad un articolo di Apollinaire sul “cubismo culinario” apparso su una rivista satirica francese, Fantasio, pubblicò sullo stesso periodico nel 1913 un “Manifeste de la cuisine futuriste”.

Maincave esortava gli chef alla sperimentazione gastronomica, rivendicando la necessità di “una cucina adeguata alla vita moderna e alle ultime concezioni della scienza”. Il cuoco aprì anche un ristorante futurista a Parigi, sulla Rive Gauche, proponendo fra le sue specialità “rane riempite di una pasta di granchiolini rosa”; “uova affogate nel sangue di bue da servirsi su un purè di patate allo sciroppo di lampone” ed il “filetto di bue Fantasio”, omaggio alla rivista che aveva pubblicato il suo manifesto. I rotocalchi iniziarono ad occuparsi di Maincave; la consacrazione avvenne con l’articolo “Un cusinier futuriste” (“Les Annales Politiques et Littéraires”, sempre nel 1913). La guerra rallentò gli esperimenti di Maincave, che comunque, cuoco al fronte, offriva ai poilu in trincea piatti corroboranti, assolutamente futuristi, anche nel nome, come la “costoletta d’attacco”. Purtroppo la prima, grande sperimentazione di cucina futurista fu stroncata da un colpo di cannone tedesco sulla cucina da campo dell’estroso chef. Marinetti tradusse e pubblicò in Italia il Manifesto di Maincave solo nel 1927. Senza esiti. Prima ancora, nel 1910, in occasione della prima serata futurista a Trieste, era stato organizzato un banchetto in cui il Futurismo si sostanziava... nell’invertire l’ordine delle portate, dal caffè all’aperitivo, e nel ribattezzare con denominazioni demolitrici ed antipassatiste i piatti: questa è la “listavivande” (il nome col quale i futuristi proporranno nei Trenta di sostituire il francesismo “menu”) di quel convivio: Caffé; Dolci memorie frappées; Frutta dell’Avvenire; Marmellata di gloriosi defunti; Arrosto di mummia con fegatini di professori; Insalata archeologica; Spezzatini di passato con piselli esplosivi in salsa storica; Pesce del Mar Morto; Grumi di sangue in brodo; Antipasto di demolizioni; Vermouth. Nel 1913, nella trattoria Venere in via di Campo Marzio, a Roma, fu offerta ai futuristi una cena che ebbe risonanza sulla stampa.

Ma fino al lancio del 1930, con la pubblicazione del Manifesto della cucina futurista e la redazione del volume a firma Marinetti-Fillìa del 1932, si era trattato di tentativi occasionali e disorganici. La guerra santa portata alla pietra nera della gastronomia nazionale, la pastasciutta, serviva ottimamente a far parlare (male o bene, purché se ne parli) dell’ultima trovata futurista, che si inquadrava benissimo in quel progetto di ricostruzione futurista dell’universo (è il titolo di un manifesto del 1915 di Balla e Depero) che Marinetti ed i suoi avevano man mano sviluppato. Ma non era che uno dei tanti elementi, e non il più qualificante, del Manifesto e delle formule ad esso conseguenti. “Pur riconoscendo che uomini nutriti male o grossolanamente hanno realizzato cose grandi nel passato, noi affermiamo questa verità: si pensa, si sogna e si agisce secondo quel che beve e si mangia”, afferma il Manifesto, in piena consonanza non solo con il materialismo di Feurbach (“l’uomo è ciò che mangia”, un aforisma che in Tedesco suona quasi tautologicamente “Man ist was man isst”) ma con Schopenhauer, che definiva la pasta “alimentazione dei rassegnati”. Ed aggiungendo ad un presunto nutrizionismo una esaltazione dell’autarchia, il Manifesto aggiunge (e con l’impennata del prezzo della pasta dopo l’invasione russa dell’Ucraina la questione del “grano straniero” si sta riproponendo con forza nel nostro Paese...): “crediamo necessaria l’abolizione della pastasciutta (che libererà l’Italia dal costoso grano straniero e favorirà l’industria italiana del riso); l’abolizione del volume e del peso nel modo di concepire e valutare il nutrimento; l’abolizione delle tradizionali miscele per l’esperimento di tutte le nuove miscele apparentemente assurde; l’abolizione del quotidianismo mediocrista nei piaceri del palato”.

E ancora, in pieno stile di macchinolatria futurista: “le macchine costituiranno presto un obbediente proletariato di ferro acciaio alluminio al servizio degli uomini quasi totalmente alleggeriti del lavoro manuale. Questo, essendo ridotto a due o tre ore, permette di perfezionare e nobilitare le altre ore col pensiero, le arti e la pregustazione dei pranzi perfetti”. Purtroppo, come sappiamo, le tre ore di lavoro quotidiano non si sono inverate (anzi, negli ultimi anni, c’è stato qualche passo indietro). Ma i pranzi perfetti? Qualche sviluppo c’è stato, anche se è forse un po’ esagerato parlare, come ha fatto giocando sul paradosso Claudia Salaris, di “Marinetti padre della nouvelle cuisine”.

(2. continua)

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