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L’artista ironico e... pungente. Intervista a Paolo Migone

Camice bianco, capelli arruffati e un occhio nero: ovvero, Paolo Migone, il cabarettista livornese da tutti conosciuto ed apprezzato per la sua ironica e, al tempo stesso, pungente comicità.

Punto di forza dello storico gruppo di artisti che ha reso celebre la trasmissione “Zelig”, oggi Migone calca le tavole dei migliori teatri italiani con uno spettacolo tutto suo in cui parla dell’Italia e che lo vede protagonista indiscusso sul palco. Ma con “Zelig show”, il tour che nella nostra città fa tappa il 18 aprile, si concede al grande pubblico dei palazzetti.

Agli inizi degli anni ottanta risalgono gli esordi: piccoli spazi di Livorno diventano teatro per le sue performance. Poi due anni di studio a Roma per apprendere il mestiere di attore che sperimenta “sul campo” dedicandosi, in seguito, ad esperienze teatrali per i ragazzi.

Nulla, in definitiva, che lo aiutasse a tirar fuori quella verve comica che si nutriva in lui e grazie alla quale, oggi, è considerato uno dei più rappresentativi  cabarettisti italiani.
Insomma, Paolo Migone è diventato quello che è quando, finalmente, decide di dare spazio a ciò che, da sempre, sognava di fare: far ridere. Ma lasciando agli altri la ricerca della risata immediata. Dei tormentoni irritanti per far posto, invece, ad un modo di fare cabaret di qualità. Così come di qualità sono, indiscutibilmente, i suoi monologhi.

Dagli esordi non ha mai cambiato il personaggio che l’ha reso famoso. Perchè funziona o, semplicemente, perchè non ce ne sono altri da cui trarre ispirazione?
“Quest’anno ho riposto nel cassetto quel camice bianco con il quale ci ‘sono stato insieme’ per tanti anni - risponde Migone da noi raggiunto al telefono - È stato un segno distintivo. Un modo per farmi ricordare dal pubblico che, spesso, dimentica i nomi”.

L’universo femminile è spesso al centro dei suoi monologhi perche le donne sono particolarmente comiche?
“La vita di coppia mi ha sempre ispirato. Così come tutto ciò che ruota intorno ad una donna. L’idea, comunque, è nata da Gino e Michele (collaboratori di Giancarlo Bozzo, il fondatore del locale milanese “Zelig”): con loro abbiamo condiviso quattordici anni di spettacoli durante i quali ad ognuno era affidato il compito di ‘coprire’ un argomento. A me è toccato questo perchè tra quelli capaci di attirare l’attenzione del pubblico. Oggi continua a piacermi perchè vivo con una donna. La osservo per cogliere dei particolari. Mi piace la complicità che si crea tra i due sessi”.

Dunque, nessun motivo particolare?
“Diciamo che invece di andare dallo psicologo, mi sfogo sul palco” 

È solo un luogo comune che nella vita quotidiana il cabarettista perda la vis comica?
“Da Busten Keaton in su, siamo tutti un po’ malinconici. Siamo un po’ mesti. Per niente euforici. Sul palco, poi, ci si trasforma”.

Ovvero?
“Non so dare una risposta precisa. È tutto avvolto nel mistero. Siamo dei menestrelli. Giriamo l’Italia, facciamo ridere. Le nostre sono vite molto bislacche. Fuori da ogni schema. Siamo confusionari ed abbiamo tante paranoie, come quella delle malattie. In fondo, siamo creature fragili”.

Crede realmente che la gente abbia voglia di ridere in un momento così difficile e con tanti problemi da affrontare?
“La gente ha voglia di lasciarsi andare. Di dimenticare, sia pure per qualche ora, le difficoltà legate alla vita quotidiana. Vuole ridere. E da noi prende tutta l’energia positiva che riusciamo a trasmettere dal palcoscenico”.

Voi, invece, cosa prendete dal pubblico?
“Non me lo sono mai chiesto. Il giorno dopo il successo di uno spettacolo, proviamo sicuramente soddisfazione”.

Come si rinnova un comico per non rischiare di essere dimenticato?
“Il comico è come un pesce rosso: più gli cambi l’acqua, più vive. Abbiamo, cioè, sempre bisogno di acqua pulita. Ed acqua pulita, per noi, significa girare. Parlare con la gente. Incontrarla. Noi raccontiamo quel che viviamo. Più viviamo, dunque, più siamo in grado di raccontare cose sempre diverse”.

Scrive da solo i testi o c’è un autore che lo fa per lei?
“Nulla di tutto ciò: improvviso. Vado a ‘braccio’. Non ho memoria. Sono un visionario: vedo e racconto. Nel mio nuovo spettacolo ho affittato un teatro e, per un mese, ad ascoltarmi era uno fuori dalla scena. Ho provato a lungo per estrapolare - alla fine - durante la prima, un’ora e mezza di monologo dalle trecento ore iniziali”.

Cosa è cambiato in Zelig dalle origini ad oggi?
“C’è stata, negli ultimi anni, una sorta di involuzione. Il gruppo storico non c’è più. I nuovi comici sono tantissimi, ma in realtà non si è mai formata una vera squadra.
Ognuno pensa a sè. ‘Zelig’, in definitiva, non esiste più. Gli ascolti, bassi, lo dimostrano. È una favola che, purtroppo, sta per vedere la parola ‘fine’. C’è poco amore. Più business. Si è perso l’obiettivo iniziale. Addirittura Colorado copia. Ma copia il brutto. È inguardabile. C’è una battuta che rende l’idea: il giullare, nel Medioevo, quando non faceva ridere veniva decapitato. Ora va a Colorado...”.

E se lo dice Migone, non si può che crederci.

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