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Taranto
12 Giugno 2025 - 08:12
Nino D'Amato
Nei giorni scorsi ci ha lasciati Nino D'Amato, tarantino, servitore dello Stato, figura di spicco delle forze dell'ordine in Lombardia dove ha speso tutta la propria vita professionale ai vertici della Questura di Milano. Riceviamo e con grande affetto pubblichiamo questa nota a firma di Franco Presicci, firma di prestigio del Giorno, che si ringrazia per la gentile concessione:
di Franco Presicci
Non ci vedevamo da parecchi anni. Ma sapevo tutto di lui dal prefetto Francesco Colucci, che è stato tantissimo tempo vice questore alla Squadra Mobile di Milano. Io ho lasciato il “Giorno” quando lui era ancora vice di Achille Serra. Poi capo è diventato lui, quindi questore a Cosenza e a La Spezia. Nino D’Amato – di lui parlo – era nato a Taranto, una delle città più belle e celebri del mondo. Di Taranto sono anch’io e qui sento il profumo delle adorate cozze del Mar Piccolo (‘u Màre peccennùdde) ed era naturale che fraternizzassimo, Nino ed io, pur stando su fronti diverse.
Lui e i suoi collaboratori concludevano un’operazione e io e la concorrenza dovevamo raccontarla, creando spesso contrasti, perché i cronisti sono cani da tartufo ed è loro compito andare là dove li porta il fiuto. Ma questo scatenava arrabbiature, proteste, polemiche, come ricorda il vice questore Edmondo Capecelatro, che adesso recita e scrive testi teatrali. Nino D’Amato, pur provando imbarazzo per la nostra insolenza, da scherzoso com’era, pronto alla battuta, amichevole, spegneva per un attimo il sorriso, senza appendere il muso.
Nino D’Amato non c’è più. Dopo una lunga, spietata malattia, se n’è andato lasciando tutti affranti. Ho appreso la notizia dall’ispettore capo Ugo Brignoli e dal commissario Silvano Gattari. Non è necessario che io dica del mio dolore. Fino a quando ho lavorato ci vedevamo tutti i giorni. Passavo prima dalla Volante per pescare nelle relazioni della notte; poi alla Mobile, dove se non c’era Achille Serra, c’era lui.
Era un gentiluomo. Quando aveva una notizia e non poteva darcela si dispiaceva, si limitava a dire: “C’è, ma devo essere muto”. Noi, sapendo che neanche un argano gli avrebbe strappato una sillaba, andavamo a bussare a ogni porta pur di riempire il carniere. Ma quando il colpo era stato realizzato e nell’ufficio del capo trovavamo un tavolo coperto di mitra, pistole, ricetrasmittenti, soldi, passamontagna e altro, lui al termine della conferenza stampa, qualche pillola in più, a richiesta, ce la somministrava, se l’indagine non doveva proseguire per raccogliere ciò che era sfuggito.
Aveva il fiuto della volpe; era prudente, attento, scrupoloso. Ai tempi in cui era vice alla Mobile scovò covi, mandò al “gabbio” elementi di spicco della criminalità singola e organizzata. Nel gennaio dell’86, in un abbaino di viale Espinasse, gli uomini di via Fatebenefratelli scoprirono 100 chili di eroina, un bel po’ di cocaina e 50 milioni di lire. Un risultato enorme, a cui i giornali dedicarono pagine intere per giorni.
Nino D'Amato
Quando la polizia neutralizzò molti esponenti della ’ndrangheta, Antonio Manganelli, direttore dello Sco a Roma, riferì il nome dell’operazione: “I fiori di San Vito”, spiegando che non si trattava di rose e garofani, ma di incarichi affidati a ogni membro della ’ndrina. La “sorella di omertà”, per esempio, può decidere della vita di chi ha sbagliato o tradito.
Nino D’Amato, che era anche una persona colta, fu sommerso dalle domande e sintetizzò la gerarchia della consorteria mafiosa. Quando servivano dettagli di una vecchia rastrellata faceva racconti brevi e precisi, ma si rifiutava di fare nomi. Diceva: “Guarda, uno che ha commesso un reato, stia o no in carcere, può avere una moglie che lavora, dei figli che studiano, e quindi non è giusto esporlo sempre alle luci della ribalta. Magari è anche una persona diversa”.
Così pensava anche Mario Nardone, mito della polizia giudiziaria, protagonista di uno sceneggiato RAI, che indagava da solo, anche spacciandosi per idraulico. Come lui, D’Amato non si vantava mai, lavorava in silenzio, senza protagonismi, usando il “noi” e non l’“io”.
Nonostante il garbo e la discrezione, non ebbe vita facile in questura, dove le tensioni erano all’ordine del giorno. «Acquistò serenità quando fu trasferito a Piacenza», ricordava Alberto Berticelli, “mastino” del Corriere della Sera.
A proposito della sua fermezza, ricordo una scena nei pressi della Stazione Centrale, dove si era consumato un delitto. Sul posto c’era Nino, che non parlò nemmeno una parola. Allora corsi in questura, e ascoltando una telefonata di un vice questore, riuscii ad avere quanto bastava per continuare il mio lavoro.
Il nostro mestiere è agevolato dalla fortuna, se la dea bendata è disponibile. Sono passati più di trent’anni, ma ho ancora voglia di raccontare uomini come Antonio Fariello, Enzo Caracciolo, Ferdinando Oscuri, Vito Plantone, Mario Iovine, e lo stesso Mario Nardone, che da solo sgominò la banda della gomma a terra.
Una mattina, Nino mi invitò a bere un caffè al bar davanti alla questura. Mi chiese di parlargli di Taranto. Per me, un invito a nozze. Gli raccontai le nazzecate de le lambàre, i pescherecci, i tramonti sul Mar Piccolo. Sembrava inebriarsi, con il suo sorriso aperto. Gli parlai anche di Alfredo Nunziato Maiorano, poeta ed etnologo, che cercava il dialetto sulle labbra dei pescatori.
«Io, caro Nino, appartengo a quei tarantini che a Milano non imparano il meneghino per nascondere le proprie radici», gli dissi.
Quando Michele Focarete arrivò, pose domande su vecchie operazioni. Conosceva la Milano by night. Quando Nino morì, Michele lo ricordò commosso: «Era un grande investigatore e un uomo straordinario».
Anche Piero Colaprico, oggi direttore artistico del Teatro Gerolamo, disse: «Era un uomo schietto, affabile, riguardoso». E l’ispettore Alberto Sala, che lavorò con lui durante le prime fasi di Mani Pulite, lo stimava profondamente.
Oggi la moglie, Anna Tommasi, pubblica ogni giorno video struggenti su Facebook. Lo si vede durante una premiazione, commosso fino alle lacrime. Un uomo grande, Nino D’Amato. Nato tarantino.
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