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La guerra tra Israele e Hamas
08 Novembre 2023 - 14:15
Una delle manifestazioni contro Israele
Armita è morta. Aveva sedici anni. È morta la scorsa settimana dopo un mese di agonia. Morta dopo essere stata brutalmente picchiata dalla polizia morale iraniana nella metropolitana di Teheran perché non indossava il velo. La sua morte, tuttavia, fatta eccezione per i giornali, è passata pressoché inosservata nelle piazze virtuali e in quelle reali. Eppure appena un anno fa era stato celebrato il rito corale del taglio delle ciocche di capelli per protestare contro la repressione del regime degli ayatollah: allora la vittima era stata Mahsa Amini, altra ragazza che aveva osato sfidare l’oscurantismo dei fondamentalisti islamici non indossando il velo. Questa volta nessuna ciocca è stata tagliata. I capelli di una consistente fetta di opinione pubblica oggi sono infatti bene avvolti nella bandiera palestinese di chi si avventa contro Israele senza pronunciare una sola parola sui terroristi di Hamas, fiancheggiati da quello stesso regime di Teheran al quale erano state idealmente indirizzate tutte le ciocche dedicate a Mahsa.
La guerra che si è scatenata tra Israele e Hamas ha innescato un preoccupante corto circuito, l’humus nel quale si sta fertilizzando uno sconcertante rigurgito di antisemitismo, mascherato dalla foglia di fico dell’antisionismo, l’ambigua distinzione utilizzata per dribblare l’accusa di essere antisemiti. Mettiamoli in fila coloro i quali si vanno incontrando su questo terreno: neonazisti, fondamentalisti islamici, la parte di sinistra accecata dall’odio ideologico anti-israeliano e anti-americano. Fa impressione la disinvoltura con la quale si ritrovano fianco a fianco fanatici della svastica, invasati di “Allah akbar”, i “pacifisti” che abusano della bandiera palestinese lasciandola sventolare in una sola direzione, senza mai porsi qualche dubbio sulla strategia terroristica di chi il 7 ottobre ha massacrato millequattrocento cittadini inermi e nel corso degli anni è arrivato persino a negare l’Olocausto. Azioni che non agevolano di certo le ragioni del popolo palestinese. Tutt’altro. Anzi, ne fanno vittima sacrificale, specie se sarà dimostrato che Hamas utilizza i civili come scudi umani.
In Italia ci si sono messe anche le personalità del pantheon mainstream, quelli che si sentono sempre dalla parte giusta al momento giusto. Il caso di Zerocalcare che ha rifiutato di partecipare a Lucca Comics perché manifestazione patrocinata, fra gli altri, dall’ambasciata israeliana, è un esempio eclatante. Subito imitato, Zerocalcare, da quelli che Francesco Merlo su Repubblica ha opportunamente definito «i minori che vogliono essere all’altezza»: ci si tuffa sull’onda nella speranza di poter approfittare di qualche scampolo di notorietà. Eppure il patrocinio israeliano era nato perché due artisti israeliani avevano disegnato il manifesto ufficiale della rassegna. Due artisti che, dopo le polemiche, si sono visti costretti a rinunciare alla loro presenza a Lucca. Siamo passati dal contestare l’esclusione di artisti russi da manifestazioni culturali dopo l’aggressione all’Ucraina a disertare quelli in cui si intravede la stella di David. Gli ideali cambiano a seconda delle stagioni. Beninteso, sempre nel segno della collaudata e convenzionale premessa «non siamo antisemiti, ma…», un refrain sovrapponibile a quello di tendenza allo scoppio della guerra in Ucraina: «Non siamo putiniani, ma…».
Qualche giorno fa in televisione un tale per difendere la scelta di Zerocalcare ha persino affermato di non accettare di essere accusato di antisemitismo dalla destra perché tra i padri fondatori della destra italiana c’è Giorgio Almirante, il cui nome evoca quel penoso “Manifesto della razza” che fu poi il contenitore ideologico delle abominevoli leggi razziali. Dalla storia, però, non si possono prendere solo i pezzi che fanno comodo alla propria narrazione. Di Almirante andrebbe anche detto che, alla guida del Msi, fece scelte nette ed inequivocabili: con l’Alleanza Atlantica e con Israele. Vale a dire dalla parte degli Alleati che vinsero il fascismo e di quegli ebrei che dal fascismo furono perseguitati. Certo, quelle scelte politiche avevano tutte una funzione anticomunista nello scenario internazionale della Guerra Fredda, ma comunque furono fatte e furono scelte importanti per indirizzare almeno la parte più istituzionale della destra. Sul sito ufficiale della comunità ebraica di Milano, Nathan Greppi riconosce che «dagli anni Settanta in poi la posizione ufficiale del partito (il Msi, ndr) rimase sempre filoisraeliana fino alla morte di Almirante». Lo fa in una interessante ricostruzione della complessità di rapporti della galassia della destra con Israele e con il mondo ebraico. Scelte, quella della posizione filoisraeliana, che non cancellano affatto le vergognose macchie del passato ma che indicano con chiarezza una netta linea di demarcazione entro la quale si è mossa la destra istituzionale fino ad oggi.
Senza dire che tra i padri della destra attuale va annoverato quel Gianfranco Fini che esattamente venti anni fa, nel visitare il museo dell’Olocausto di Gerusalemme, si coprì il capo con la tradizionale kippah e pronunciò la sua abiura del fascismo tranciato come «male assoluto», senza alcuna giustificazione per «i carnefici di ieri» che avevano prodotto «le infami leggi razziali».
Oggi l’antisemitismo è patrimonio politico-culturale di movimenti residuali ed elettoralmente insignificanti della estrema destra ed è nutrimento per i fondamentalisti islamici che bruciano la stella di David e che non hanno come missione la pace in Medio Oriente ma l’annientamento tout court dello Stato ebraico. Accanto a questi si muove quella parte di sinistra che continua a non prendere le distanze da Hamas né da certi segnali terrificanti come gli oltraggi alla memoria della Shoah.
È questo il brodo nel quale si alimenta l’antisemitismo e il clima non sembra così distante da quello che finì per produrre una delle più disumane pagine della storia dell’umanità. Viene da chiedersi se le tante persone che in tutto il mondo manifestano legittimamente e in buona fede per i diritti del popolo palestinese siano consapevoli di questo sconcertante allineamento di posizioni. Le bandiere di Israele bruciate in piazza, le svastiche o le stelle di David disegnate sui muri dei palazzi dove abitano ebrei, gli oltraggi alle pietre d’inciampo, i cori inneggianti Hamas – non solo in Italia – e ora le sinistre figure incappucciate che occupano le aule universitarie sono un segnale terrificante. È qualcosa che ci riporta indietro a quei tempi oscuri che furono il prologo del più grande sterminio di un popolo che la storia ricordi. Per questo servono gesti e azioni responsabili.
Disertare una manifestazione culturale, quand’anche in assoluta buonafede, è un atto che può generare pericolose emulazioni e contribuire ad alimentare il fuoco dell’odio: il contrario di ciò che servirebbe per creare un clima politico-culturale utile a fermare la carneficina che si sta consumando in queste settimane. Una cosa è la legittima condanna delle azioni di un governo, peraltro contestato anche all’interno del proprio Paese, altro è criminalizzare uno Stato ed un popolo ed invocarne la cancellazione. Tutto ciò, lo ribadiamo, senza mai sprecare una parola di condanna del massacro del 7 ottobre e sempre chiudendo gli occhi sull’obiettivo di Hamas, che non è la pace in Medio Oriente, non è due popoli in due stati, ma è unicamente l’annientamento di Israele. Ai morti civili di Gaza non si può rispondere spargendo l’odioso germe dell’antisemitismo. Purtroppo, ancora una volta, ad una situazione terribilmente complessa si risponde con il qualunquismo della faziosità, spesso ottusa e alimentata dalla malafede. Nessun confronto ragionevole è permesso, solo muro contro muro. Schierati, come eserciti in guerra. Nei social e nelle piazze.
Con questo clima ci avviciniamo al 27 gennaio: non sappiamo per l’occasione quale ondata di fango sarà riversata sugli ebrei, ma almeno per il Giorno della Memoria ci sia risparmiata, da chi si sente sempre dalla parte giusta nel momento giusto, l’ipocrisia del rituale delle coccarde a lutto sui social e dei commenti commemorativi intrisi di compunzione.
Le vittime della Shoah meritano più rispetto delle ciocche di capelli mandate in archivio.
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