C’è una singolare coincidenza che lega l’arresto di Matteo Messina Denaro a una vecchia storia che ha Taranto come palcoscenico: la malattia e il bisogno di cure del boss. Oggi Matteo Messina Denaro, ieri Luciano Liggio. Se il super latitante Denaro è stato tradito dalla necessità di farsi curare alla clinica La Maddalena di Palermo, oltre cinquant’anni fa lo spietato numero uno dei corleonesi del tempo, Luciano Liggio, si fece ricoverare all’ospedale Santissima Annunziatra. Con esiti radicalmente diversi: se Denaro è stato arrestato, per Liggio quello all’ospedale tarantino fu un soggiorno dorato che poi lasciò del tutto indisturbato. E su quella oscura permanenza a Taranto sono diverse le pagine dedicate dalle commissioni parlamentari antimafia. Ma quella di Liggio è solo una prima documentata relazione della mafia corleonese con Taranto. Molti anni dopo, ci fu un nuovo tentativo di contatto. Anzi, di tentativo di coinvolgimento della mafia tarantina nella strategia stragista di Cosa Nostra nella quale un ruolo devastante, secondo le ricostruzioni degli inquirenti, lo avrebbe avuto proprio Messina Denaro. Un tentativo, quello dei corleonesi con i tarantini, che si consumò in alcune delle carceri italiane e che vide come destinatari delle proposte corleonesi i fratelli Claudio e Gianfranco Modeo protagonisti della faida familiare che tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90 insanguinò Taranto con la sua tremenda scia di oltre un centinaio di omicidi e di diverse vittime innocenti finite nel posto sbagliato nel momento sbagliato. In questa storia dei contatti tra mafiosi siciliani e boss tarantini entra uno dei nomi più inquietanti della mafia siciliana: Bernardo Brusca, antico sodale proprio di Liggio e Riina. Luciano Liggio, appunto. La sua storia criminale nasce alla fine degli anni ‘40. È dalla sua mano che la sera del 10 marzo 1948 partono i tre colpi di pistola che centrano alla testa Placido Rizzotto, il sindacalista dei contadini di Corleone. Liggio ha tutte le caratteristiche per diventare il boss dei boss: è spietato ed è ambizioso. La sua ambizione e la sua determinazione a scalare ogni gerarchia lo portano ad ammazzare il medico Michele Navarra, allora considerato il capo della mafia corleonese. Un omicidio che sancisce l’assoluta supremazia di Lucianeddu: ora è lui il capo indiscusso di Cosa Nostra. Al suo fianco sono due giovani luogotenenti: Totò Riina, ‘u curtu, e Bernardo Provenzano, ‘u tratturi: altri due nomi che segneranno tragicamente la storia della mafia e del terrore in Italia. Undici anni dopo l’assassinio di Navarra, Liggio e Riina finiscono sotto processo in Corte d’Assise a Bari. A loro carico l’accusa di associazione a delinquere, oltre ad una impressionante serie di omicidi. La sentenza, a sorpresa, è però di assoluzione: insufficienza di prove. È il 10 giugno 1969. I due mafiosi tornano in libertà e la sera festeggiano a Bitonto, nonostante dalla Procura di Palermo arrivi alla Procura di Bari la sollecitazione ad adottare un provvedimento cautelare nei confronti dei due, perché considerati elementi troppo pericolosi per essere lasciati in assoluta libertà. Il massimo che si riesce a fare però è un foglio di via obbligatorio con destinazione Corleone. Riina giungerà effettivamente nel suo paese dove gli viene notificato un foglio di via per San Giovanni Persiceto, in provincia di Bologna. Ma in quel paesino agricolo dell’Emilia Riina non arriverà mai. Di lui si perderanno le tracce fino all’arresto di trent’anni fa. Liggio, invece, dopo l’assoluzione, imbocca un’altra direzione: non Corleone, ma Taranto. Meta: il reparto infettivi del Santissima Annunziata. È lì che si fa ricoverare, forse affetto da morbo di Pott, una forma di tubercolosi extrapolmonare. La data del ricovero è quella del 18 giugno 1969. Stessa data in calce ad un ordine di arresto della Procura di Palermo ma che a Taranto non verrà mai notificato. A Liggio viene notificata solo una ordinanza di rimpatrio a Corleone, entro tr egiorni. Lucianeddu, invece, resterà al Ss. Annunziata per tre mesi nella stanza al pian terreno con vista sul terrazzino. Tre mesi nei quali il nome di Liggio continua misteriosamente a comparire nel bollettino dei ricercati, come se il suo fosse un ricovero fantasma, nonostante il primario avesse segnalato alla questura il ricovero di Liggio. Quel medico, altra singolare coincidenza, è il figlio di un noto mafioso palermitano, già all’attenzione dei carabinieri che ne descrivono la sua caratura delinquenziale. Ma è lo stesso Ss. Annunziata a finire più tardi nella relazione della commisisone antimafia presieduta da Francesco Cattanei: l’ospedale tarantino viene indicato come «normalmente frequentato da mafiosi». Nel “buen retiro” tarantino Liggio intreccia anche una relazione con una infermiera. Una donna che in seguito resterà ancora nei pensieri del boss, come poi ricorderà il pentito Antonino Calderone: Liggio, tornato a Catania, voleva dirigersi di nuovo a Taranto per incontrare quella donna. Un azzardo pericolosissimo al punto che lo stesso Calderone finirà per dargli del «pazzo», visti i rischi che avrebbe corso andando a trovare una persona a conoscenza della sua identità. In ogni caso, anche per Liggio si apriranno lunghi anni di latitanza. Da quell’estate del 1969, trascorreranno molti anni prima che si torni a parlare dei rapporti della mafia corleonese con Taranto. Bisognerà infatti arrivare a giugno del 2015, quando è Gianfranco Modeo ad alzare il velo su quei contatti, a cominciare da quelli del fratello Riccardo con alcuni esponenti siciliani per il traffico di armi. Lo scenario è quello del processo sulla famigerata trattativa Stato-mafia. Modeo viene chiamato a testimoniare e ricorda che durante la sua permanenza in carcere all’Asinara, era stato compagno di cella di Bernando Brusca e prima ancora era entrato in contatto con i Madonia. Siamo all’indomani delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Alle perplessità di Modeo sulla efficacia di quella strategia del terrore, Brusca avrebbe risposto: «Siamo al punto di non ritorno». Insomma, non avevano intenzione di fermarsi. Gianfranco Modeo parla anche del tentativo di coinvolgere nel piano stragista proprio la sua famiglia. A essere contattato sarebbe stato suo fratello Claudio. Ma la famiglia decise di tenersi alla larga da quella situazione, così come - ma qui entra in scena la ‘ndrangheta - i Modeo avrebbero rifiutato la richiesta di fornire un killer per attentare alla vita del magistrato Ilda Boccassini. Episodi, questi, emersi anche nel processo sulla ‘ndrangheta stragista. Nel 2015 Gianfranco Modeo rivela anche la sua conoscenza con Alberto Lorusso, balzato alla popolarità della cronaca per le sue chiacchierate, intercettate, con Totò Riina nel carcere di Opera. Nato a Montemesola, ma operativo nell’area di Grottaglie, ha girato in regime di 41 bis numerose carceri italiane: Voghera, Brescia, Novara, Cuneo, fino ad incontrare il capo dei capi ad Opera. Di lui Gianfranco Modeo dirà: «Dopo la nostra uscita di scena è diventato un punto di riferimento, un personaggio importante». Siamo nel ‘93-’94: Lorusso non sapeva ancora che molti anni più tardi sarebbe diventato celebre per aver raccolto le “confessioni” di Totò Riina. Forse l’ultimo capitolo degli intrecci tra Taranto e Corleone. Enzo Ferrari Direttore responsabile
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