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Allargamento del conflitto in Medio Oriente

Il rischio è reale

La guerra di Israele a Gaza rischia di allargarsi fino a diventare una conflagrazione regionale con gravi conseguenze politiche ed economiche.

Il rischio è reale

Il leader della rivoluzione islamica, l'Ayatollah Seyyed Ali Khamenei, ha partecipato alla preghiera funebre per il generale martire Seyed Razi Moussawi, esponente di spicco delle Guardie della rivoluzione iraniane Pasdaran, in servizio in Siria come consigliere militare, ucciso in un attacco israeliano nella capitale Damasco.

Le autorità di Teheran accusano Israele, che come spesso accade, non rivendica la responsabilità del raid. La minaccia di gravi ritorsioni contro lo Stato ebraico riaccende i timori per un allargamento del conflitto, ma la guerra, di fatto, ha già una dimensione regionale.

Il crescente numero di attacchi contro le truppe statunitensi dispiegate in Medio Oriente, che rispondono colpendo gruppi armati vicini all’Iran in Siria e Iraq e il deterioramento della sicurezza nel Mar Rosso, per mano dei miliziani Houthi dello Yemen, sono tessere di un mosaico di instabilità sempre più ampio: la guerra di Israele a Gaza rischia di allargarsi fino a diventare una conflagrazione regionale con gravi conseguenze politiche ed economiche.

Amir Saeed Iravani, ambasciatore iraniano e rappresentante permanente di Teheran all’ONU, ha dichiarato che “l’Iran ha diritti legittimi basati sulla Carta delle Nazioni Unite per una risposta decisiva al momento opportuno”. La Siria, d’altro canto, è da tempo teatro di una ‘guerra fantasma’ tra la Repubblica islamica e lo Stato ebraico, che colpisce con regolarità obiettivi legati a Teheran nel paese arabo, guidato dal regime filo-iraniano di Bashar al Assad.

Gli assalti contro le truppe di Washington in Medio Oriente, iniziati in concomitanza con l’ultima escalation a Gaza e in Israele, si contano ormai a decine, mentre le forze navali USA e alleate restano in stato di massima allerta dopo molteplici attacchi con droni e raid contro navi mercantili nel Mar Rosso. Gli Houthi insieme a Hezbollah e a varie milizie in Siria e Iraq, costituiscono la rete di Teheran in Medio Oriente, spesso definita “Asse della resistenza”.

La Repubblica islamica iraniana ha dimostrato di non volersi prendere la responsabilità di un allargamento del conflitto a livello regionale. Ha negato di aver partecipato o organizzato l’attacco del 7 ottobre. Hezbollah si è limitato sinora a scambi di fuoco circoscritti con Israele. Gli Houthi, i più imprevedibili tra gli attori regionali vicini a Teheran, minacciano direttamente uno dei nodi strategici per il commercio mondiale.

Il raid mostra ancora una volta come il conflitto in corso tra Hamas e Israele sia già regionalizzato e coinvolga attori lungo tutto il Medio Oriente. La durata e il numero delle vittime e delle distruzioni, sono un fardello umanitario e politico che mobilita la protesta, in particolare nel mondo arabo e islamico, e rischia di influenzare seriamente gli equilibri futuri in Medio Oriente e nel Nord Africa.

In tutto questo non è chiaro quali piani a più lungo termine abbia Israele nei confronti dei palestinesi e del loro territorio, né se vi sia nel paese un consenso politico sufficiente per accettare ed applicare un effettivo piano di pace. Il mondo sta cominciando a muovere altre pedine. Oltre ai Paesi occidentali che oggi appoggiano Israele, e fortemente contrari a un allargamento del conflitto, altri stanno prendendo posizione, con loro obiettivi strategici. La Russia di Putin ne approfitta per distogliere l’opinione pubblica dall’Ucraina, e sembra appoggiare Hamas, oltre ad accrescere la collaborazione con l’Iran.

La Turchia, inizialmente esitante, ora schierata contro Israele, forse nel tentativo di rafforzare le sue posizioni in Siria, probabilmente per accreditare Erdogan come nuovo leader del movimento dei Fratelli Musulmani. Questi Paesi peraltro non sono normalmente alleati tra loro: i loro interessi sono frequentemente divergenti, ma in questa fase sembrano aver trovato ragioni sufficienti per stabilire una sorta di coalizione anti israeliana. La Turchia pur avendo stabilito linee di comunicazione con la Russia, ed avendo appoggiato la riconquista del Nagorno Karabakh da parte dell’Azerbaijan contro l’Armenia, resta pur sempre membro della NATO e in contrasto con Russia e Iran in Siria. Lo stesso Iran, nei conflitti in Caucaso, era solidale con Armenia e Georgia, in funzione antiturca ed antirussa, anche se è divenuto un importante fornitore di armi per Mosca, contro l’Ucraina e riceve un parziale appoggio russo in campo nucleare.

L’interesse comune sembra essere soprattutto di carattere negativo: ognuno di questi paesi ha proprie ambizioni in Medio Oriente che potrebbero avere maggiori speranze di successo se si indebolisse l’influenza americana ed occidentale nella regione, e vedono in Israele la perfetta occasione per raggiungere tale risultato.

E’ difficile immaginare come una simile coalizione possa assicurare uno stabile equilibrio della Regione. L’appoggio concesso a movimenti terroristici e fondamentalisti, che non hanno alcun interesse ad una qualsiasi pacificazione, pesa in modo importante sulla loro credibilità.

Il risultato di tutto questo però sembra essere un aumento della volatilità politica dell’intera Regione, che finirebbe ancora una volta per obbligare gli americani e l’Occidente ad impegnare importanti risorse in un processo di difficilissima stabilizzazione.

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