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DDL DI RIFORMA ISTITUZIONALE

Ennesima occasione persa

L’aspetto che più preoccupa è la lontananza dai bisogni reali del Paese

Ennesima occasione persa

Dunque finalmente si conosce “la madre di tutte le riforme”, il ddl di riforma istituzionale così definito dalla presidente Meloni dopo l’approvazione del CdM.
Certo è che, stando al testo varato e ai commenti a caldo anche di costituzionalisti non pregiudizialmente ostili, non pare sia iniziata una passeggiata a causa proprio della formulazione della proposta, ma anche un inesperto di diritto costituzionale comprende che ci sono contraddizioni che fanno pensare più al 2 che al 4 novembre. Ne hanno parlato subito tra gli altri con argomentazioni molto serie e anche preoccupate ad esempio Vladimiro Zagrebelsky, Marcello Pera, Giovanni Maria Flick, Francesco Clementi. Sono questioni rilevanti. Eccone alcune.
C’è la questione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio in un’unica scheda con Camera e Senato, il cuore stesso del cosiddetto premierato. Il principio del simul stabunt simul cadent, quello che vale per comuni e regioni – se cade il Sindaco o il Presidente, si scioglie il Consiglio – non vale per il premierato – se cade il Presidente eletto, il Presidente della Repubblica può sostituirlo con un altro della stessa maggioranza, l’unico che cadendo a sua volta può sciogliere le Camere. Si dice di volere dare il potere al popolo e in realtà lo si dà alle correnti e alle camarille, a discapito delle tanto proclamate norme antiribaltone ed evanescenza della stabilità.
C’è la questione di come cambiano i poteri e il ruolo del Presidente della Repubblica. Si diceva di voler evitare di intaccarli, e invece lo si è fatto e pure pesantemente, di fatto privandolo della sua funzione di garanzia in occasione della crisi di governo e della possibilità di sciogliere le Camere. Non solo, ma di fatto si crea una diarchia sbilanciata tra un presidente eletto (quello del Consiglio) e uno nominato (quello della Repubblica), che sarebbe così ridotto a funzioni formali e notarili. Un conflitto tra due legittimazioni diverse e opposte, una diretta e una indiretta. Meloni dice che non si devono creare le condizioni per far dimettere Mattarella, ma è proprio ciò che si sta facendo.
C’è poi la questione del sistema di elezione, che, come detto, è congiunta per Presidente del Consiglio e Camere. Nella proposta si fissa in Costituzione, per chi vince, un premio di maggioranza al 55% senza fissare una soglia di accesso, cosicché con il 25% dei voti di un partito o di una coalizione si potrebbe avere la maggioranza assoluta dei seggi. Continuando l’attuale trend di astensione dal voro, si potrebbe avere il bel risultato di un Parlamento dominato da una maggioranza che in realtà è una minoranza nel Paese. E così, se qualcuno potrà gridare viva il capo, qualcun altro anche ciao democrazia.
Si dirà che il problema della soglia verrà risolto con una nuova legge elettorale. Ma proprio qui sta il punto critico. Perché questo procedere a pezzi senza una visione organica? Perché questa fretta di mettere sul tavolo del confronto politico una proposta che più si scava più appare raffazzonata nei meccanismi, contraddittoria nei compiti, inadeguata agli scopi dichiarati? Si dice più potere al Presidente del Consiglio e più semplicità e in realtà si complicano le cose, si dice stabilità e si ottiene precarietà, si dice basta ribaltoni e si favoriscono complotti e ribaltoni.
Si ha la netta impressione di una proposta che, dietro la facciata di volere imprimere nuova spinta al sistema nel rispetto degli impegni presi con gli elettori, è finalizzata soprattutto ad impegnare il dibattito pubblico in vista delle europee sapendo già quale poi sarà la sua fine. E si tratterà dell’ennesima occasione persa per dare a Paese una riforma istituzionale seria quanto mai necessaria da tempo.
L’aspetto che più preoccupa è la lontananza dai bisogni reali del Paese: è costruita tutta intera dentro le logiche chiuse di una politica autoreferenziale che parla di popolo come se il popolo fosse un’entità astratta e non la composizione di individui che hanno testa, cuore, interessi, bisogni, e che tutti insieme costituiscono la ragnatela di relazioni che fa vivere le comunità e i territori, che hanno le loro caratteristiche, le loro dinamiche e i loro problemi. E hanno bisogno di classi dirigenti preparate, competenti, dedite al bene comune. Cioè frutto di percorsi trasparenti di selezione.
Non a caso la proposta di riforma si concentra sul vertice istituzionale per accentuare la tendenza in atto da tempo a ridurre la funzione di rappresentanza e i poteri reali delle assemblee elettive. È ciò che è avvenuto nei comuni e nelle regioni. E nei fatti è avvenuto anche per il Parlamento, svilito nelle sue funzioni dalla riduzione di un terzo dei rappresentanti, dalla decretazione d’urgenza che trasferisce all’esecutivo il potere legislativo, il tutto aggravato dall’inconsistenza dei partiti e da un sistema elettorale che concentra nelle mani di pochi il potere di decidere chi viene candidato e al limite eletto. La riforma aggrava le cose.
Emerge con tutta evidenza la sfiducia nelle necessarie complessità dei sistemi democratici. Si vuole affermare che la semplificazione dell’elezione diretta del capo è la forma che deve assumere oggi la democrazia per riportare al voto i cittadini disaffezionati da istituzioni farraginose e inconcludenti. È un falso, è il portato di un populismo predicato per anni e ormai penetrato nell’abito stesso della politica. Ma società articolate e complesse come le nostre richiedono esattamente il contrario, cioè la necessità di riscoprire proprio la funzione democratica della complessità, delle differenze e del compromesso politico, dei partiti, dei corpi intermedi, della funzione di rappresentanza delle assemblee elettive.
Non mi pare che ci sia sufficiente sensibilità per inserire nel dibattito questo tipo di visione. Eppure è di fronte agli occhi di tutti che abbiamo un Paese fragile in tutte le sue articolazioni, che richiede l’assunzione di una capillare rete di responsabilità. Fragile nelle istituzioni: sicuri che anche i comuni e le regioni funzionino come sarebbe necessario e che non abbiano bisogno di una rivisitazione profonda? Fragile nell’assetto del territorio: ma lo vediamo che cosa vuol dire non aver fatto e attuato piani di sistemazione idraulica, di difesa e di assetto del territorio? Fragile nei servizi: che dire della sanità? e del sistema di istruzione e formazione? Fragile nella preparazione democratica, nell’informazione, nella capacità di discutere e di orientarsi.
Come non preoccuparsi anzitutto di questo in una strategia di riforma delle istituzioni? Come non mettere in cima alle preoccupazioni l’uscita da una perenne incertezza e precarietà di tutti i gangli vitali della nazione? Ma che classe dirigente è questa?! Una riforma tutta centrata sul vertice, che tratta il popolo come una massa chiamata a scegliere il suo capo, appare così lontana dalla realtà e dai bisogni che essa drammaticamente esprime che suscita solo il desiderio che scompaia quanto prima dall’orizzonte. Non accadrà, anche perché non sembra che dalle opposizioni arrivi una proposta alternativa che assuma i bisogni di realtà come guida per la riforma delle istituzioni.
Ma questa è la necessità e anche l’urgenza. C’è bisogno di una riforma generale del sistema Paese, di cui la riforma istituzionale può essere il volano. Il Paese ha bisogno di ritrovare sé stesso dentro un processo che lo coinvolga nelle viscere e nei cervelli delle persone, nelle città e nei villaggi. Deve riguardare il centro e le periferie, deve riorganizzare i sistemi di governo locale, deve cambiare il regionalismo frammentato in regionalismo delle macroregioni, deve intervenire sulla rivitalizzazione dei corpi intermedi.
Può farlo solo con l’elezione a suffragio universale di un’Assemblea Nazionale Costituente, che mobiliti il popolo in una discussione seria, corale, approfondita, come se fossimo all’inizio di una nuova fase della nostra storia. So che con ci sarà il coraggio nemmeno di parlarne, figurarsi di mettere una simile idea sul tavolo del confronto politico. Ma non ci priviamo almeno della libertà di dirlo!

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