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GARANTISMO COSTITUZIONALE
24 Agosto 2023 - 20:42
di Vincenzo Maiello*
L’insediamento dell’attuale maggioranza di governo aveva lasciato prefigurare nuove direttrici di intervento nel campo del diritto e del processo penale, di portata radicale rispetto alle stratificazioni novellistiche degli ultimi decenni cui si deve l’assetto odierno di un ambito cruciale della vita sociale (che coinvolge individui, imprese, gruppi comunitari e istituzioni) e del funzionamento dello Stato costituzionale.
Chi aveva alimentato questo genere di aspettative era stato indotto a farlo – prevalentemente, se non soprattutto – avendo riguardo al profilo culturale del nuovo Guardasigilli, piuttosto che alle tradizioni politiche che fanno da sfondo al partito di maggioranza relativa. Si tratta di un profilo evolutosi dentro e a latere dell’esperienza di giurista del suo autore e per questo, forse, privo della strutturale ambiguità della comunicazione politica; un profilo, dunque, che si è fatto apprezzare per la chiarezza e coerenza con cui è divenuto portavoce della necessità di riorientare la politica criminale sui punti cardinali del garantismo liberale, così riallineandola al mondo dei valori e dei fini del costituzionalismo penale.
Nel corso dei primi mesi, quelle aspettative avevano trovato nuova linfa sia in seguito al discorso col quale il Ministro illustrò in parlamento il programma di governo nelle materie di competenza del suo dicastero; sia in occasione di uscite pubbliche per lo più di natura convegnistica.
In particolare, avevamo molto apprezzato nell’intervento in parlamento, da un lato, l’inedito imprinting metodologico della prospettiva riformistica che, finalmente, poneva l’accento sul suo carattere organico e, di conseguenza, sul superamento delle normative ‘a comportamenti stagni’ (quasi che fosse possibile incidere sul diritto penale o lasciare inalterato la struttura di ordinamento giudiziario senza avere ricadute sul processo o sull’esecuzione della pena); dall’altro, l’indicazione della materia delle intercettazioni e della separazione delle carriere quali argomenti esemplificativi del nuovo impegno riformistico.
Il corso degli eventi si è incaricato di mettere pesantemente in discussione la credibilità di queste linee programmatiche e, perciò, di deprimere le speranze di riforme nel segno del garantismo costituzionale: per un verso, lasciando trasparire il carattere propagandistico e di interventi spot (Pelissero, Il Foglio, 20 giugno) dei punti di volta in volta segnalati come obiettivi da realizzare; per l’altro, evidenziando come anche questo governo sia restato prigioniero delle sirene del populismo penale e, dunque, permeabile alle relative pulsioni illiberali e giustizialiste.
Sono senza dubbio distoniche con l’impostazione annunciata e, poi, sbandierata con enfasi le scelte in tema di rave party, di ergastolo ostativo e, soprattutto, il recente decreto-legge che amplia la nozione di ‘criminalità organizzata’ per legittimare secondo parametri di minor rigore le intercettazioni telefoniche.
A ciò si aggiunga il proposito, subito abortito, di riscrivere per via legislativa la fattispecie del concorso esterno, la messa in parcheggio della separazione delle carriere e la recentissima sortita che annuncia una riforma della prescrizione ‘da brividi’, nella quale il calcolo della relativa durata decorre dalla data dell’accertamento del reato, non già da quella della sua commissione.
Cosa dicono questi fatti?
Molte cose la cui discussione richiederebbe spazi non consentiti dai limiti di questa sede. Una di esse, tuttavia, merita di essere qui segnalata, poiché tocca la radice dei gravi problemi – di valore e di funzionalità – che affliggono il modello vivente di giustizia penale e l’enorme difficoltà di attuarne il superamento: ci si riferisce alla divaricazione tra la forma di governo delineata dalla Costituzione e la sua trasfigurazione materiale, da cui è scaturita – in forma occulta e strisciante, ma pervasiva – un’alterazione della dinamica fra i poteri, in modo particolare tra il legislativo e il giudiziario.
A ben vedere, dietro la perdurante difficoltà della politica di dare compiuta forma legislativa al ‘se’, ‘come’ e ‘quanto’ punire il fiancheggiamento associativo mafioso (in altri termini, il concorso esterno) si coglie, tutta intera, la dimensione tossica della delegittimazione culturale e della crisi di autorevolezza della rappresentanza parlamentare rispetto alla (ritenuta) maggiore sapienza del formante giurisdizionale, che, non a caso, ha rivendicato nella circostanza l’intangibilità della propria ‘creatura’.
Paradossalmente legato a questa degenerazione del modello costituzionale è l’altra sua forma, emblematicamente rappresentata dal decreto legge intervenuto ad estendere la nozione di criminalità organizzata in contrasto con quella accolta dalla giurisprudenza della Cassazione.
Anche questa vicenda si iscrive nella parabola di una relazione patologica tra articolazioni funzionali dello Stato di diritto, ove, stavolta, l’indebita invasione di campo viene consumata dal legislatore. Mostrando insofferenza verso l’autonomia delle prerogative riservate alla giurisdizione, la politica si è attribuito – in assenza delle condizioni che lo avrebbero legittimato – il potere di interpretare d’autorità una norma di legge, sulla quale il diritto vivente della Corte di cassazione, in esito alla consueta e fisiologica evoluzione delle dinamiche interpretative, aveva raggiunto esiti di stabilizzazione.
In entrambe le situazioni considerate, il convitato di pietra della turbativa alle fisiologiche relazioni fra i poteri si dimostra essere quel tarlo della cultura democratica contemporanea che è il populismo penale.
Non può, allora, che convenirsi con chi auspica che solo un impegno della ragione pubblica, nella direzione della sensibilizzazione verso i principi e i valori del costituzionalismo penale (G. Fiandaca, Il Foglio, 2 gennaio 2020), potrebbe aiutare Politica e Magistratura a ricollocarsi nel ruolo di Signori del Diritto nel modo riconosciuto legittimo dalla Carta repubblicana: operando ciascuno quale custode delle proprie prerogative e, nel contempo, controllore dei limiti di manovra dell’altro.
*Docente di diritto penale Università "Federico II° "
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