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SENTIMENTALE

Se guardo il mare mi innamoro

di Santa Calvagna

Bovindo

Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.


Se guardo il mare mi innamoro

di Santa Calvagna

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Di tutti gli amori di cui ho sentito parlare, quello che ho vissuto ha certamente dello straordinario, tanto da modificare il mio modo di pensare all’amore e di concepire l’universo.
Ma andiamo per ordine.
Era l’estate del 1989 e, come ero solito fare nei mesi estivi, andai in giro per il mondo con la mia barca dopo essere partito dalla mia Sicilia. Giunto al porto di Cascais, in Portogallo, ormeggiai. Al porto c’erano pescatori che tornavano da una notte di pesca, mi salutarono con un cenno di mano e mi mostrarono con orgoglio il loro abbondante raccolto.
Osservai il mare: era calmo, il sole albeggiava e sulla sua superficie si vedevano i primi luccichii; da lì a poco sarebbe diventato ancora più luccicante, un vero gioiello.
Dopo aver fatto colazione in barca andai per le vie della città. Le strade erano strette, con viuzze che si dipartivano da ogni angolo. Cascais è una località balneare, a pochi chilometri da Lisbona. Mi fermai sulla piazza e osservai il panorama: vidi da lontano il porto, dove avevo ormeggiato la mia barca. La visione era stupenda: sullo sfondo azzurro del mare spiccavano le barchine colorate, sembrava un quadro, uno spettacolo davvero incantevole.
Dopo aver girovagato per le vie della città, tornai alla mia dimora nuotante. Trascorsi tutto il giorno tra lettura, pulizie – a dir il vero poche – e assoluto relax. E così i giorni a seguire.
Ogni sera presi l’abitudine di cenare in barca, dove mi dilettavo a cucinare piatti di pesce che compravo dai pescatori del luogo. Fu in una di queste sere che, mentre ero seduto sotto un cielo di stelle, sentii un suono simile a un fischio. All’inizio non diedi importanza, poi risentii il fischio, e ancora e ancora. Allora mi alzai e mi sporsi sul bordo della barca per vedere cosa fosse. Girai per tutta la barca: niente!
Ritornai a godermi la cena ed ecco di nuovo il fischio. Stavolta presi la lampada e feci luce in mare. Vidi una sagoma dirigersi di me; indietreggiai spaventato, poi incuriosito mi sporsi in avanti, illuminai la sagoma e lo vidi: era un delfino di colore grigio. Solo dopo pochi giorni potei ammirare la bellezza di tutte le sue sfumature.
Sapevo che i delfini sono mammiferi acquatici, non pericolosi, così come conoscevo tanto altro poiché, per passione, mi ero documentato sul mare e le sue creature. Allungai la mano dal bordo della barca e accarezzai il dorso del delfino. Apprezzò, fece una giravolta e tornò in posizione iniziale, fermo, come se chiedesse di essere nuovamente accarezzato.
Pensai: «Sarà stato l’odore del cibo ad avvicinarlo, avrà fame». Le porsi allora del pesce, dimezzai così la mia cena. Lo accettò volentieri e poi sparì.
Ogni sera venne a trovarmi. Iniziai a cucinare più pesce, consapevole che avevo un ospite a cena.
Una mattina lo vidi. Mi sbalordii: non era sera e non era venuto certamente a cibarsi. Forse per gratitudine? Si avvicinò alla barca e si fece accarezzare, poi andò al largo e fece delle acrobazie in acqua, mentre io da lontano lo osservavo.
Lo chiamai Luna perché lo conobbi in una sera di luna crescente.
Mi accorsi pian piano che provavo interesse per Luna: inizialmente era curiosità, poi diventò attaccamento e così, ogni giorno, attendevo la sera per comunicare con il mio ospite, adesso amico. Quando non lo vedevo fischiavo e lui appariva. Ci facevamo compagnia sotto le stelle: io raccontavo di me, lui stava fermo come se ascoltasse. Quando avvicinavo la mia mano al suo viso, gli si strofinava sopra come per darmi una carezza. Mi affezionai a lui (solo più avanti seppi che era una femmina).
Una mattina, con la barca, andai al largo e mi tuffai in mare per farmi una nuotata. Luna si avvicinò e giocò con me, mi nuotò accanto, mi sentii protetto. Fu in questa occasione che, alla luce del sole, vidi il colore del suo corpo e tutte le sue sfumature e, dalla dimensione, capii che era una femmina.
Un giorno la vidi in gruppo con altri delfini. Non si avvicinò a me, ma incominciò a volteggiare tra le onde di fronte alla mia barca: voleva farsi notare. La riconobbi tra tanti, inconfondibile con le sue sfumature di grigio. Assieme ai compagni delfini disegnò archi in cielo in perfetto sincronismo: erano dei veri artisti.
Stavolta, nel mio viaggio tra mare e cielo, non mi sentii solo. Non cercai più di colmare i miei vuoti con passeggiate solitarie o con la lettura di libri: adesso c’era lei, Luna.
Venne il giorno di andare via. La mia prossima tappa sarebbe stata la Sardegna, per poi rientrare in Sicilia. La cercai per salutarla.
«Di cosa si sarebbe cibata la sera?», era il mio pensiero fisso. «Per chi avrebbe danzato tra le onde?»
Scacciai via questi pensieri e continuai a cercarla. Non c’era. Mi mossi con la mia barca malinconico per non essere riuscito a dire addio alla mia amica acquatica. Lo stretto di Gibilterra era meraviglioso, anche se non riuscii a godere appieno della sua bellezza: i miei sentimenti erano punzecchiati dalla malinconia.
Giunsi a destinazione. Il porto di Costa Rei, a sud della Sardegna, era semivuoto. Stavo per ormeggiare quando sentii un fischio a me familiare. Corsi intorno alla barca con il cuore in tumulto. Era lei. Sì, era lei.
Mi aveva seguito. Chissà da quanto tempo seguiva la mia barca. Correvamo in parallelo, lei e io, senza perderci di vista, come innamorati.
Approdai velocemente e mi sporsi in mare per accarezzarla. Affiorò dalle acque il suo muso e si lasciò toccare, felice. La mia amica era ancora con me.
Passarono i giorni. Eravamo sempre insieme: a cenare, a conversare sotto le stelle, a nuotare e danzare tra le onde. Poi non la vidi per tre giorni consecutivi. Ero preoccupato. Pensai che forse aveva ritrovato il suo gruppo di delfini. Ma una sera, all’improvviso, apparve. Non era sola: con sé aveva due piccoli delfini. Si avvicinò alla barca e si fermò mostrandomeli. Erano le sue creature. Aveva quindi partorito, per questo motivo era sparita per giorni.
La accarezzai e, commosso, accarezzai i suoi piccoli. Aveva fame: la nutrii a dovere, adesso ne aveva più bisogno.
I delfini femmina sono madri attente, allattano la prole con cura, sono anche gelose dei loro piccoli; eppure Luna lasciava i suoi piccoli a me e andava al largo a danzare: si fidava.
Avevo il cuore a pezzi pensando che a breve sarei dovuto rientrare a casa, nella mia Sicilia, nel mio paese natio, Misterbianco, città metropolitana di Catania, e abbandonare per sempre Luna e i suoi piccoli. Ma all’improvviso avvenne la tragedia.
Una mattina sentii un fischio diverso dal solito, quasi come un urlo. Mi precipitai a vedere: era Luna. Continuava a emettere striduli, aveva accanto a sé i cuccioli. La guardai e vidi che sul dorso aveva una grossa ferita sanguinante. Era stata colpita forse da predatori. No: sul corpo aveva un taglio causato per catturarla, pensai rabbioso.
Cercai di curarla, chiesi aiuto ai pescatori, agli abitanti del luogo. Consultai un veterinario che un ristoratore del posto mi fece conoscere, il quale mi disse che la ferita era molto profonda e, sebbene i delfini abbiano una grande capacità di recupero e di rimarginare le ferite, in questo caso, considerata la gravità del taglio inferto, era impossibile che guarisse. Piansi.
Luna continuava a sanguinare. Il sangue avrebbe attratto gli squali, mettendo in pericolo i suoi piccoli. Così stette vicino alla mia barca: voleva proteggere e proteggersi. Per giorni non andò al largo ed io non dormii per notti. Feci da guardia a Luna e ai suoi piccoli.
La situazione era insostenibile. Non poteva restare sempre lì ferma: non sarebbe stata una vita sana, soprattutto per i suoi piccoli. E Luna lo capì meglio di un essere umano.
Una sera mi chiamò con i suoi fischi. Io mi chinai e mi tuffai in acqua. Lei si avvicinò, strofinò il suo muso al mio viso, appoggiò il dorso alla mia mano. Chiedeva una carezza, l’ultima…
La accarezzai. Toccai lievemente la ferita: sanguinava copiosamente. Ci guardammo. I suoi occhi erano tristi e sofferenti. Con il muso avvicinò i suoi piccoli a me. Sapevo cosa voleva dirmi. Poi, dopo aver di nuovo avvicinato il suo muso al mio viso – era il suo bacio di addio – si inabissò in acqua e scomparve nel buio della notte.
Piansi vicino ai piccoli delfini. Luna aveva capito che, rimanendo ancora vicino ai suoi piccoli, li avrebbe posti in pericolo e preferì andare via e trascorrere i suoi ultimi giorni da sola.
Adottai i piccoli delfini.
Il mio viaggio sarebbe dovuto già finire, ma allungai di mesi la mia permanenza, almeno fino a quando i piccoli delfini sarebbero cresciuti un po’, riuscendo a sfamarsi da soli. I soldi non mi bastarono, allora decisi di vendere l’orologio d’oro che avevo al polso per garantire una sufficiente disponibilità economica, utile a pagare il combustibile, il posteggio della barca al porto e tutto ciò che serviva per sfamare me e i piccoli.
Non ricordo quanto tempo trascorse. I piccoli crebbero, volteggiavano nell’aria proprio come la mamma, che era sempre nei miei pensieri. Le notti mi svegliavo pensando: «Sarà morta di fame o dissanguata?». In ogni caso avrà sofferto, e piansi come si piange per una persona cara che va via per sempre.
Solamente la vista dei piccoli delfini, ormai adulti, mi faceva tornare il sorriso. Anche loro, come Luna, si avvicinavano a me chiedendo carezze.
Dopo mesi giunse il momento di andare via. Ormai ero tranquillo: i delfini sapevano cibarsi e cavarsela da soli e poi erano in due e si sarebbero fatti compagnia. Mi incoraggiai a lasciarli. Li salutai giocando con loro in acqua.
Mi diressi verso la mia Sicilia. Ormeggiai la barca al porto di Catania, al solito posto. Forse non l’avrei più ripresa, o forse sì, non so. Avevo sentimenti contrastanti dentro di me: dolore, tristezza, rabbia…
Quindi mi incamminai verso la mia Misterbianco, paese tenace e combattivo, i cui abitanti sono persone accoglienti e calorose. Dal loro affetto avrei trovato conforto.
Ripresi la vita quotidiana, ma non ero più lo stesso. Non lo sarei più stato.
Quell’estate del 1989 cambiò il mio modo di concepire l’universo e, soprattutto, l’amore.
Io che avevo sempre vissuto come un vagabondo senza legami, che andavo spesso in giro per Paesi e per mare, come un lupo solitario senza mai raggiungere qualcosa di stabile a cui credere, compresi, vivendo quell’esperienza, cos’è l’amore e cosa significa credere a qualcosa o a qualcuno.
Luna, con la dedizione assoluta ai suoi piccoli, da amarli al punto da scegliere di morire da sola, mi aveva insegnato ad amare. Luna, con le sue danze di riconoscenza, la sua compagnia, il suo saper intuire, mi aveva insegnato che tutte le creature sanno amare.
Questo amore così vasto da inglobare tutto l’universo mi dà coraggio e fiducia nei momenti bui e mi fa andare avanti, nonostante tutto.
Mi capita spesso di andare vicino al mare. Mi siedo ad osservarlo ed emetto un fischio, come facevo allora, ma intorno c’è vuoto…
Tutte le volte che guardo il mare penso a Luna e al suo amore straordinario e sento l’amore addosso.
Adesso, se guardo il mare, mi innamoro.

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