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ALLEGORICO
30 Ottobre 2025 - 06:00
Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.
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Io non faccio niente. Dalla mattina alla sera. E anche di notte, resto qui. Non mi muovo. Non parlo. Non respiro. Sono fermo. La mia vita è una tela bianca su cui il mondo intero dipinge i suoi ritmi, le sue passioni, i suoi rumori. Io sono un muto spettatore, l’unico che sta immobile in un universo in affanno. La gente passa. Di continuo. Uomini con giacche larghe e scarpe lucide con il loro tac… tac… tac… sull’asfalto. Donne con gonne leggere che frusciano come vele soffiate dal vento. Bambini che corrono urlando, con zaini gonfi come mongolfiere. E poi, gli animali. Cani che portano i padroni al guinzaglio, gatti che si muovono in silenzio come ombre. Passano tutti, ma nessuno mi vede. Nessuno mi saluta. Io non esisto. Tutti mi passano accanto, ognuno con il suo peso invisibile sulle spalle.
C’è il Saggio, un uomo con le lenti spesse come fondi di bottiglia. Cammina leggermente curvo, con le mani cariche di libri che sembrano mattoni di conoscenza. I suoi passi sono lenti e raccolti. Ogni metro percorso nasconde per lui una domanda difficile. Non mi vede. Per lui, io sono solamente suolo su cui poggiare i piedi.
C’è la Veloce, la donna con le piccole cuffie e scarpe da ginnastica che emettono un fsh, fsh, fsh, fsh… leggero, rapido, quasi un soffio, ad ogni passo sull’asfalto. I suoi muscoli sono archi tesi, pronti a scoccare invisibili frecce. Il respiro è rapido e ansioso, come onde che si infrangono di continuo sugli scogli. La sua corsa è così concentrata che i suoi occhi non vedono niente. Non vedono me, non vedono l’erba. Vedono solo un orizzonte lontano, un miraggio di fatica che deve raggiungere al più presto, a tutti i costi.
E ci sono i bambini. Piccoli schiamazzi veloci. Con le loro mani, spesso sporche di terra, sfiorano il mio corpo senza sentirlo davvero. Le loro voci sono limpide e taglienti, rompendosi nell’aria in mille risate come frantumi di vetro. Giocano, si rincorrono, disegnano sul cemento con gessetti colorati che lasciano tracce allegre e passeggere. Loro sono il movimento. Io l’immobilità.
Di notte, le cose cambiano. Sento la terra farsi fredda e umida sotto di me. Arriva il Silenzioso, un’ombra di velluto che si muove senza far rumore. A volte si accovaccia accanto a me, come una ciambella con i baffi. Non mi usa per scaldarsi. Sono solo il riparo più vicino per lui e per le sue piccole prede squittenti.
Resto immobile. E vedo. Non con gli occhi, perché non li ho, ma con tutto me stesso. Sento i passi, gli odori, i respiri. La notte mi cala addosso come una coperta troppo grande. Invece, il giorno mi scotta, come un forno sempre aperto. Un bambino una volta mi ha sfiorato con la scarpa. Non si è fermato. Ha continuato a correre dietro a un pallone che rimbalzava allegro come un sorriso. Io invece non rimbalzo. Non sorrido. La pioggia cade su di me e scivola via. Mi bagna, mi lucida. Ma non mi entra dentro. Il sole poi mi asciuga piano, come una madre che stende i panni al vento. L’inverno mi indurisce, mi fa crepitare dentro, e l’estate mi fa bollire come una pentola dimenticata sul fornello.
Gli insetti ogni tanto mi passano sopra. Formiche in fila come note su un pentagramma, ragni che mi usano come ponte da cui lanciare la rete, coleotteri che brillano al sole come bottoni colorati caduti da una giacca. Alcuni si fermano, per un po’. Poi vanno via. Nessuno resta. Io resto sempre. Non ho amici. Non ho un padre, non ho una madre. Non ho fratelli con cui litigare o cugini con cui giocare. Non provo invidia. La mia solitudine non è una punizione, è una sorte che accetto. La mia unica possibilità è osservare, senza giudizio. Ognuno segue il suo percorso, la sua battaglia quotidiana, la sua vita affollata. Io sono il silenzio. Sono uno, ma somiglio a zero. Non ho una forma esatta, un’identità chiara. Senza un nome, senza nemmeno un colore preciso, senza un destino diverso da aspettarmi. Non mi lamento, perché non posso. Non mi muovo, perché non posso. Non faccio niente, niente di niente, e niente farò mai. Sono un sasso. E questa è la mia vita: ferma, silenziosa, ignorata.
C’è un bambino che fa come me. Non lo conosco, ma so che esiste, perché anche lui non fa niente. Non gioca con gli altri. Non ha amici che lo chiamano in strada, né cugini che lo trascinano nei loro giochi rumorosi. Non ha giocattoli che gli fanno compagnia. Non ha fratelli o sorelle che dormono con lui la notte e lo svegliano la mattina. Va a scuola, ma a scuola non fa niente. Non ride alle battute dei compagni, non alza la mano per rispondere, non reagisce ai rimproveri della maestra. Resta lì, con lo sguardo perso come una barca senza remi in mezzo al mare. Torna a casa, ma a casa non fa niente. Non accende la TV, non colora, non gioca con i videogiochi che gli altri bambini nominano nei corridoi. Siede, dorme, respira. Tutto piano, tutto senza rumore. Tutto niente. Dovunque vada, lui non fa niente. In primavera non corre nei prati, non annusa i fiori. In estate non va al mare, non si tuffa nelle onde. In autunno non schiaccia le foglie secche, non le lancia in aria. In inverno non lancia palle di neve, non scrive sui vetri bianchi delle macchine. Gli altri si agitano intorno a lui. I grandi parlano, sorridono, leggono, litigano, si abbracciano, si baciano, si arrabbiano, preparano la cena, tagliano, mescolano. Gli animali ronzano, cantano, ringhiano, volano, si arrampicano. Gli alberi del giardino cambiano abito ad ogni stagione: verdi, rossi, gialli, nudi. E lui… niente. Niente di niente. La sua vita è come la mia: ferma, vuota, muta. Due solitudini lontane. Senza neanche saperlo.
Un giorno camminava, distratto. Come di consueto. I suoi occhi fissavano il cemento senza vederlo. Ed ecco che successe. Un piccolo imprevisto. L’unica azione inattesa della sua vita. Inciampò. Non cadde, ma il suo piede urtò qualcosa di duro. Si fermò. Si abbassò, e la sua mano toccò qualcosa. Ero io. Si ferma. Mi guarda. Ma non come fanno tutti gli altri, sbadati, veloci. Mi guarda veramente. Si piega, mi raccoglie con le sue mani, piccole e tiepide. Mi gira tra le dita. La sua fronte si corruga appena appena. Cosa farne di me? Io resto sasso. Non posso cambiare. Non posso fare nulla. E invece no. Il bambino mi porta con lui. Si siede a terra. È pensieroso. Poi, i suoi occhi vedono i segni sbiaditi dei gessetti colorati sul cemento. I resti di un gioco antico. Scatole disegnate, numeri quasi completamente cancellati.
Accadde l’impossibile. Il bambino si guarda intorno. Non c’era nessuno a vederlo. Raccoglie un gessetto consumato, abbandonato monco, accanto ad un muretto, e traccia con la destra righe, quadrati, numeri. Disegna un rettangolo, poi un altro, fino a formare un percorso. Io non capisco. Ma resto fermo nell’altra mano, quella mancina. Poi, all’improvviso, mi lancia. Non me l’aspettavo. Volo! Io, che non mi sono mai mosso in vita mia, volo. Atterro dentro un quadrato con i bordi colorati di azzurro. E lui salta. Salta con un piede solo, come un fenicottero. Poi con due, poi ancora. Ride. Ride forte. Il suo volto si aprì in una smorfia che non avevo mai visto: era il sorriso felice di chi gioca davvero. Lui continuò a zompettare, a spingere il mio corpo liscio da una casella all’altra. Non mi muovevo da solo, mi muovevo con lui. Il sole calava, verniciando il cielo di pesca matura e di ombre allungate. Il bambino non era più un’ombra senza bordi. Era un corpo in movimento, un suono, una risata fino ad allora sconosciuta, che si diffondeva nell’aria tiepida. Quando fu stanco, mi prese. Mi tenne stretto, strofinandomi con le dita. Non mi lasciò cadere, non mi lanciò. La sua mano non era più vuota. Poi mi mise nella tasca dei suoi pantaloni. Sentivo che il mio destino non era più il cemento freddo. Era il calore della stoffa, il ritmo del suo passo, la voce del suo respiro che rincasava. Io non faccio nulla. Sono sempre lo stesso. Ma adesso mi sento utile. Servo a giocare. E lui gioca. Gioca come non aveva mai fatto. Corre, salta, si piega, mi raccoglie e mi lancia. Ancora una volta. Io sono parte del suo gioco. Io sono diventato compagno. Il sole brilla più chiaro. L’aria profuma di polvere e sorrisi. La strada non è più deserta, è piena di gessi colorati e piedi che pestano. Io non sono più solo. Neanche lui. Due solitudini che si incrociano, che si incontrano. Io, sasso che non facevo mai niente, e lui, bambino che non aveva mai giocato. Adesso c’è movimento, c’è rumore, c’è allegria. Prima eravamo niente. Adesso siamo qualcosa. Qualcosa di più. Non uno più uno, ma molto di più. E io, che non facevo niente, ora gioco. Con lui. E lui, che non faceva niente, ora vive. Con me.

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