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DRAMMATICO

Hind Rajab – Come a dama

di Letizia Bertotto da Vercelli

Bovindo

Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.


Hind Rajab - Come a dama

di Letizia Bertotto

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A Hind Rajab,
e a tutti i bambini
le cui vite sono state spezzate
dagli orrori di una guerra univoca e crudele.


Di quel giorno, Hind ricordava soprattutto la polvere.
Polvere, polvere ovunque: copriva le strade semidistrutte, i vetri frantumati dei negozi, gli scheletri arsi e divelti degli edifici. Persino l’automobile della sua famiglia, che lei aveva sempre visto così sfavillante e lucida, ne era ricoperta, dentro e fuori. Persino la mano di sua sorella Aya, la stessa mano accogliente e familiare che ora stringeva alla ricerca di conforto, era resa ruvida da un pesante strato di polvere chiara, quasi bianca.
Non facevano altro che schivare buche, voragini che a Hind sembravano senza confini, minacciando di inghiottirli come sabbie mobili se vi si fossero avvicinati incautamente. La schiena le doleva per via di tutti quei movimenti bruschi, ma cercava di non lamentarsene: pensava solo a quando lei e sua sorella avrebbero raggiunto i genitori e i fratelli, già fuggiti da Gaza City, e al momento in cui avrebbe potuto rifugiarsi tra le loro braccia calde.
Nell’attraversare quelle strade che un tempo le erano state così familiari, e che ora apparivano come un’enorme carcassa informe, Hind diceva addio: addio a quei luoghi conosciuti, a quegli odori intensi, a quegli angoli nascosti che aveva imparato a conoscere, a quegli edifici ancora intatti che le scorrevano accanto. Diceva addio quando avrebbe voluto solo dire ciao.
«Ho paura», sentì dire sua sorella Aya. Aya, che di anni ne aveva sedici e che Hind aveva sempre pensato inarrestabile e invincibile, aveva paura. Ma certo che ne aveva – chi non ne avrebbe avuta? Le strinse la mano un po’ più forte, e la sorella gliela strinse di rimando. Finché fossero state vicine, tutto sarebbe andato per il verso giusto. 
Polvere, polvere e ancora polvere. Così tanta che Hind temeva che, se avesse aperto bocca, questa le avrebbe ricoperto la lingua, riempito la gola e i polmoni. Lo stesso dovevano aver pensato sua sorella, i suoi cugini e i suoi zii, perché dopo quelle due parole sussurrate da Aya nessuno parlò più. A riempirle le orecchie c’era solo il rumore delle ruote sul pietrisco, che a modo suo pareva pulsante di vita.
Nella brusca monotonia dei movimenti dell’auto e del paesaggio intorno, Hind si ritrovò a pensare al gioco della dama che sua sorella aveva deciso di insegnarle, alle sue regole macchinose e ordinate, alla scacchiera lignea che il padre aveva regalato loro, alle ventiquattro pedine scure e chiare che conservavano con cura in un piccolo sacchetto di fortuna per non rischiare di perderne qualcuna nel caos affollato di casa.
«Ricorda che il bianco muove sempre per primo», le aveva detto Aya il primo giorno, mentre posizionava con cura le pedine nelle apposite caselle. Hind la osservava affascinata. Era stato il giorno in cui aveva imparato a contare fino a dodici: dodici, come le pedine bianche che muovono sempre per prime e che sua sorella Aya lasciava a lei.
«Ricorda che le pedine muovono sempre in diagonale, e soprattutto sempre in avanti», aveva proseguito Aya, dandole dimostrazione di quanto detto spostando una delle proprie pedine da una casella scura all’altra – le caselle erano in tutto sessantaquattro, ma Hind non riusciva a pensare a come si potesse contare fino a un numero così alto. Non ancora.
«Ricorda che la presa è obbligatoria: devi catturare le pedine avversarie, anche una dopo l’altra se riesci, e se arrivi alla base avversaria, la tua pedina diventa dama. Ecco perché si chiama gioco della dama.»
E di nuovo le dita abili di Aya si erano mosse con sapienza sulla scacchiera, spostando la pedina fino alla casella scura all’estremità della tavola, facendola diventare dama. Nella sua natura estetica non era cambiato nulla, ma probabilmente era qualcosa all’interno della pedina ad averla fatta diventare dama.
«Vuoi provare tu?», le aveva chiesto Aya, riportando le pedine spostate nella loro posizione originaria e lasciando che Hind prendesse familiarità con quel nuovo gioco. E da allora, ogni loro momento libero era stato dedicato alla dama, a quel passatempo che era divenuto solo loro, una bolla silenziosa, privata, in cui il resto del mondo non era ammesso.
Ma a ripensarci in quel momento, forse la loro bolla non era poi così silenziosa e privata. Se lo fosse stata, quei carri armati – anch’essi polverosi – non l’avrebbero invasa con così tanta facilità, non l’avrebbero fatta scoppiare senza un ripensamento, senza fatica alcuna.
«Ricorda che il bianco muove sempre per primo.» Forse era per quello che i carri armati li avevano circondati da ogni lato, sopraggiungendo all’improvviso e costringendoli a una brusca frenata, a un brutale arresto della loro fuga di speranza: perché loro erano delle pedine chiare, mentre la loro Kia era una pedina scura – e tutta quella polvere non era bastata a mimetizzarla e a cambiarne la natura.
«Ricorda che le pedine muovono sempre in diagonale, e soprattutto sempre in avanti.» Forse era per quello che i carri armati potevano spostarli indietro e muoversi più liberamente, mentre loro non potevano fare altro che cercare una via di fuga in avanti, in qualche corridoio di fortuna laterale che, però, sembrava non esserci.
«Ricorda che la presa è obbligatoria.» Forse era per quello che i carri armati si erano avvalsi della loro supremazia di dame metalliche, spigolose, eclissi del cielo e della luce – che strano: Hind aveva sempre immaginato le dame del gioco come donne eleganti, gentili e rotonde –, mentre loro non potevano fare altro che lasciarsi prendere e mangiare come pedine indifese.
I colpi avevano cominciato a riecheggiare, velocissimi ed eterni, da ogni lato del veicolo. Molti di più delle dodici pedine che le erano state assegnate; molti di più delle trentadue caselle scure; molti di più delle sessantaquattro che componevano la scacchiera. Erano così tanti, forse troppi quei colpi, per loro che non erano altro che sette pedine indifese. Così tanti che, dopo la prima raffica di colpi, ne erano rimaste due: sua sorella Aya e lei.
Nel guardarsi intorno, Hind vide solo il sangue mischiarsi alla polvere, tingendola di una tinta cupa che, in giorni migliori, le avrebbe ricordato l’intenso rosso di un tramonto. Pensò che forse avrebbero dovuto farsi ingoiare da una di quelle voragini nel terreno quando ancora ne avevano la possibilità, perché forse la salvezza e il paradiso stavano lì – tirati a lucido, profumati di bucato, senza una sola traccia di tutta quella polvere.
Sentì sua sorella parlare, ma non con lei: parlava con qualcuno al telefono, anche quello impolverato e macchiato del sangue che Hind non avrebbe saputo identificare da quale corpo, da quale ferita provenisse. La sentì chiedere aiuto con voce fioca e tremante, voce che venne spazzata via da una nuova scarica di colpi, voce che prima si impennò acuta e poi si ridusse a un sibilo, e infine a un silenzio atroce e paralizzante.
Sentì la sua stessa voce chiedere aiuto allo stesso telefono polveroso e sporco, per un tempo che le apparve lunghissimo. Sentì sé stessa indicare alla voce all’altro capo della linea tutto ciò che vedeva intorno a sé dalla prospettiva frantumata dei finestrini a pezzi. Una voce che le prometteva che avrebbero inviato qualcuno.
«Per Hind, quella doveva essere una dama elegante, gentile e rotonda, capace di spazzare via le altre dame metalliche e spigolose», pensò. Era la stessa voce che le sussurrava parole di incoraggiamento, che le diceva che era davvero coraggiosa, e forte, e temeraria.
«Lo sono», pensò Hind. «Sono coraggiosa e forte, e temeraria, per essere una semplice pedina nel gioco della dama.»
«Non voglio morire in questo modo», aveva detto. Poi di nuovo quel suono metallico.
Trecentotrentacinque colpi erano stati scaricati sul suo corpo: un numero che era molto più alto delle dodici pedine, delle sessantaquattro caselle. Un numero fino a cui lei non avrebbe imparato a contare.

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