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FANTASCIENZA

Lapide di carta

di Jack Campo da Chiavari - GE

Bovindo

Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.


Lapide di carta

di Jack Campo

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L’ombrellone strappato sbatteva contro la ringhiera arrugginita. Il suono, simile a campane rotte, seguiva il volere del vento, che portava cenere e pioggia oleosa da una costa all’altra.
Edifici in rovina incorniciavano strade mute. In quella quiete diventata normale, il tintinnio infastidiva l’uomo in grigio. Da tempo, il silenzio era l’unico amico.
La cenere si posava sul cappello, sul giaccone, sui jeans scoloriti, sugli anfibi logori. Quando la scrollava di dosso sembrava un serpente che emergeva dalla sabbia. Non si sentiva tanto diverso.
Tossiva spesso sotto la maschera, aggiungendo rumore al silenzio. Avrebbe dovuto cambiare i filtri. Si odiò per non averlo fatto. Mentre imprecava, raggiunse la piazza. Tutte le vie si intersecavano al centro, disegnando una geometria quasi elegante. Doveva essere splendida, un tempo.
Una lettera B di metallo era conficcata nella statua centrale, peggiorando il degrado.
Un nuovo suono si unì all’orchestra nelle sue orecchie. Questa volta lo accolse con sollievo: era venuto per lui, dopotutto.
Conosceva la sua forza. O meglio, ne aveva sentito parlare. Sapeva quanto fosse rabbioso, turbolento. Non si era mai più placato. L’aria lì era umida, ma marcia. Ancora non lo vedeva, ma ne sentiva le urla. Poco dopo, i primi schizzi lo raggiunsero sul viso. Bruciavano appena.
E poi lo vide. Il mare. Con il suo color rame ossidato si infrangeva sugli scogli.
Si tolse la maschera. Non lo avrebbe ucciso. Respirò con avidità, riempiendosi i polmoni con l’aria che sapeva di un lontano ricordo di salsedine. Il petto bruciava appena. Andava bene così.
Scese in spiaggia. La solita desolazione: macchie scure, ammassi di terra nera. Lapidi universali, che non facevano distinzione tra i credi. Cenere incrostata formava statue, sagome informi, germogli di un prato estinto. Così a riva come in strada.
La differenza stava negli oggetti. Resti di un tempo perduto, totem di chi non c’era più. Lo sguardo del viandante si posò sull’orizzonte. Nuvole velenose sembravano soffocare l’acqua sotto di loro, ma il mare si opponeva con forza. La sua schiuma giallastra macchiava le spiagge a ogni ondata.
Per lui l’aspetto era irrilevante. Si sarebbe immerso volentieri. Ma non era ancora il momento.
L’abbandono all’ignoto doveva attendere. Tolse gli anfibi. I calli allenati dei piedi si piegarono alla liscia tortura dei ciottoli. Sapeva che la sera la pelle avrebbe bruciato, avrebbe dovuto grattarne via uno strato. Ma ne valeva la pena.
Si concesse qualche minuto: passeggiava, respirava, ascoltava. Ignorava le sculture e i relitti di lamiere sul suo cammino. L’urto fu improvviso.
Non fu doloroso, ma inatteso. La sabbia che un tempo fu pietra lo aveva nascosto, protetto. Ne aveva urtato un angolo, che si piegò sotto il suo peso. Lo estrasse con cura. Era un quaderno, e molti pezzi si staccarono subito, quasi spaventati. In passato doveva essere di invidiabile robustezza. Lo capiva dalla forma, dalla copertina sfinita.
Il Grigio Viandante lo infilò sotto il giubbotto, allontanandosi dal mare che a breve lo avrebbe reclamato. Si accigliò, cercando riparo in quella che sarebbe stata la sua villeggiatura per qualche minuto. Riprese il quaderno con la cura di un vetraio. Lo scricchiolio dell’apertura gli strappò una smorfia consueta: naso arricciato, bocca di sdegno. Il suo marchio.
Lo sfogliò dal fondo. Le pagine tutte bianche gli spensero il volto, fino a notare le prime due, scritte a mano su una carta che resisteva a fatica. Ma non importava.
Accompagnato dal tintinnio dell’ombrellone, cominciò a leggere.

Domenica, 23 luglio 2028

Non ho mai scritto un diario. In realtà non credo di aver mai scritto nulla in vita mia, o anche solo letto qualcosa, a parte qualche giornale e un paio di fumetti di supereroi. Credo che le riviste porno non valgano: da leggere non c’è niente e, in verità, ora che ci penso, non credo nemmeno di averne viste molte. Due o tre da ragazzino sì, ma non sono così vecchio. Ho solo trentacinque anni e ho scoperto presto l’avvento di Internet.
Comunque sia, posso confermare che sì, non ho mai scritto un diario (ti avviso: sarà pieno di puntini e due punti, perché li adoro).
Perché lo sto facendo ora? Non ne ho idea. Forse ero incuriosito dalla cosa, o forse sono talmente frustrato dalla mia vita che mi sembrava un’idea geniale. Non so nemmeno come si cominci un diario. Forse l’ho già fatto, in effetti. Di sicuro non comincerò con “Caro diario”: è roba da sfigati, e io non lo sono. Volevo solo provare.
In queste poche righe, chissà quanti errori di ortografia avrò già commesso. A scuola ero una capra. E mi scuso con la capra, poverina: probabilmente, nella sua lingua, è più corretta di me. Del perché ho cominciato, è vero, non lo so. Però, a dire il vero, so perché in questo momento.
Ispirazione, direi. AH AH AH (non so come si scrive una risata). Però sono qui, in spiaggia, a cuocermi al sole come un povero branzino alla griglia e, grondando di sudore, ho pensato… perché no?
Ho provato a fare il bagno, ma il fondale è qualcosa di osceno. Non sporco, intendiamoci, anzi, l’acqua non è mai stata così pulita. Ma sembra di camminare sui chiodi. Tutto il fondo è formato da ciottoli spigolosi che ti penetrano le piante dei piedi a ogni passo.
Ho provato, lo giuro, ma già a riva, all’altezza delle tibie, pensavo di morire. Appena ho visto le ginocchia coperte, ho ritenuto l’acqua abbastanza profonda da tuffarmi, prima di rischiare l’amputazione di entrambi i piedi, che ancora mi fanno un male cane.
Di contro, il mare era splendido, fresco e perfino poco salato. Una gioia insperata, dopo una così tremenda sofferenza (non male questo passaggio, mi sento uno scrittore).
Di solito, comunque, non rimango molto in acqua. Mi tuffo, mi rinfresco ed esco. Le prime due fasi: fatte. La terza… ero titubante. In primo luogo, perché, lo ripeto, si stava una meraviglia tra quelle piccole onde che mi massaggiavano.
Ho notato perfino qualche pesciolino girarmi intorno. Molto coraggioso, glielo concedo. Non che gli avrei mai fatto del male, mi considero un amante degli animali. Sì, anche dei pesci.
La seconda motivazione, invece, erano le pietre. Sì, lo ripeto: quelle cazzo di pietre. Non hai idea del dolore. Non lo puoi sapere. Ma come si fa a lasciare un fondale così?
Comunque, con molta sofferenza, ce l’ho fatta. Mi sono lasciato portare dalle onde fino quasi a riva. Solo all’ultimo, quando cominciavo a sentire grattare la pancia, mi sono alzato. Ripeto: un male assurdo!
Alla fine ho raggiunto il mio asciugamano. Non che qui la postazione sia confortevole: le pietre del fondale sono le stesse della spiaggia. Si vede che il comune ha risistemato da poco la zona, e questo è il risultato.
Cazzo, che maleducato. Ora che ci penso non ti ho nemmeno detto il mio nome.
“Caro diario” (ok, l’ho detto, è stato più forte di me), mi chiamo Giulio. Molto piacere!
Come ti ho già detto, sono un ragazzo di trentacinque anni. Dovrei dire uomo, ma sono ancora troppo giovane. Sono disoccupato. Da poco, vorrei specificare.
Sono stato licenziato da una di quelle catene di supermercati che pretendono il doppio turno a orari assurdi e che tu sia ancora con un bel sorriso stampato in faccia alla fine della giornata, quando arrivano i clienti dell’ultimo minuto, quelli che entrano mentre stai pulendo il pavimento con la chiara intenzione di chiudere quel posto maledetto.
Ma sono stronzi o cosa? Ti arrivano e ti chiedono: “Siete ancora aperti?”.
Non lo so, vedi tu. Vorrei dirgli: manca un minuto alle ventuno e il cartello dice “chiusura alle 21”… sai volare? No? Allora torna domani e fai a meno della merendina.
Invece no. Devo rispondere: “Certo, vieni pure. Fai con comodo”, e col sorriso. Quel cazzo di sorriso richiesto dalla direzione.
Con quello che mi pagavano, già il fatto di sorridere era un atto eroico. Ma lasciamo stare.
Avrai capito che non era la mia prima scelta di vita. Volevo fare l’attore. Non c’è niente da ridere. Ero bravo. Vabbè, forse non bravissimo, ma me la cavavo. Poi si sa… la vita.
Scrivo “la vita” e un bambino mi tira la sabbia addosso. Ora, intendiamoci: mi piacciono i bambini, lo giuro. Ma un’area riservata per loro no? C’è quella per i cani, fatene una anche per quei simpatici esserini portatori di microbi.
A proposito, tutti questi piccioni che svolazzano senza meta… chissà quante malattie portano. Ho appena visto un gabbiano mangiarsene uno. Che orrore. So che è il ciclo della natura, ma cavoli… mi fanno paura.
Meno male che non ho cibo con me, potrebbero assalirmi solo per prendersi il mio pranzo. Però un certo languorino mi è venuto. Lo sapevo, dovevo fermarmi lungo il tragitto da “Zio Ben”, all’inizio della passeggiata.
Ha gli hamburger più buoni che abbia mai assaggiato. In realtà, col brontolio che ho ora, mi sarebbe andato bene un panino qualunque; tanto, se c’è una cosa che non manca su questo lungomare, sono i locali.
Tutte le sere, fino alla fine dell’estate, è sempre festa qui. Se hai i soldi, ovviamente. Se sei uno squattrinato disoccupato… beh, ti fai una bella passeggiata e guardi gli altri divertirsi.
Perché non sono nato ricco? Quanto è ingiusta la vita.
Ma sai che c’è? Fra un’oretta, invece di tornare indietro, lascio il motorino, dov’è, e con la scusa di fare due passi vado a farmi uno Spritz in quel nuovo localino appena aperto nella piazzetta. “O Sole Tuo”, si chiama, se non sbaglio.
Costa quanto una pizza col dolce, ok, ma vuoi mettere? Seduto a due passi dal mare (ci sono anche adesso, ma è diverso), mentre sorseggio il cocktail guardando il tramonto… oh, quella sì che è vita.
“Fossi anche in bella compagnia”, sarebbe perfetto. Ma per quello mi devo accontentare di guardarle, con quei costumini invisibili che fanno risaltare curve e abbronzatura.
Ecco, per questo l’estate è bella. Fa un caldo infernale. Sudo come una caciotta lasciata al sole semplicemente stando fermo.
Ora mi faccio un bagno. Poi torno. Un’impresa del cazzo. Lo ripeto: mare fantastico, ma bisogna guadagnarselo.
La prossima volta giuro che cambio spiaggia. Anche se mi servirebbero dei piedi di riserva.
Sono quasi asciutto: è stato davvero piacevole. Il sole picchia davvero forte. Sarà colpa del surriscaldamento globale? Bah, sicuramente, ma la bici elettrica costa troppo.
Non c’è una nuvola. Il tempo è splendido, veramente. Se non fosse per tutte quelle righe… lo sarebbe ancora di più.
Quelle scie bianche degli aerei. Sono bruttissime. Come vene nel cielo. O peggio, cicatrici. Ho letto da qualche parte che sono tossiche. Non mi stupirei.
Ma cosa non lo è, ormai? Oggi, poi, ce ne sono moltissime. Sarà perché è sabato: via vai di turisti in arrivo.
Ora che guardo meglio… c’è un aereo che non lascia scie. Vola molto basso, sarà per quello.
Ok, riformulo. Non penso sia un aereo. Sarà uno di quei droni che vanno tanto di moda. È troppo basso. Cambio idea. Forse è davvero un aereo. È troppo veloce per essere un drone, ma non ha ali, non fa il rumore di un elicottero.
Senti, ok, non lo so. Non ho mica gli occhi di un falco, eh. Sarà qualche veicolo di emergenza. Però non si allontana, né va in direzione dell’aeroporto.
Il tempo di scrivere e ha sfiorato le colline qua dietro. Sarà di qualche miliardario ubriaco che vuole mettersi...
Seguì un mugolio rauco. Fu l’unico commento alla lettura. Si alzò a fatica, aiutandosi con le mani. Indossò di nuovo il suo vero volto, la seconda pelle. Il quaderno tornò nel giubbotto. La cenere gli tingeva i vestiti. Il mare gli ricordava che quella ormai era casa sua.
Proseguì verso est, dove un tempo nasceva il sole e ora timidamente osava appena. Si distrasse immaginandone il calore.
Urtò contro una piccola lapide nera, mandandola in frantumi. Una scultura bassa, legata a una più grande per un’estremità. Solo una parte del suo animo sentì qualcosa. Nulla che contasse davvero.
Si spolverò con il palmo. Fece attenzione a dove metteva i piedi. Il terreno era vecchio, screpolato, impervio. Se la civiltà era mai appartenuta a quei luoghi, ora non abitava più lì.
La via si rivelò più lunga del previsto e costeggiava il mare da lontano. Vecchie frane lo costringevano a deviare tra gli edifici. Le vetrate in frantumi, i tavoli distrutti. Prese in prestito delle bottiglie. Non le avrebbe restituite.
Superò l’ultimo edificio. Una vecchia insegna ribattezzata “ZEN” dalla sorte. Ironia. Poi cambiò direzione. Il nord fu la meta.
Più avanzava, meno la vita lo seguiva. La distruzione cresceva a ogni passo. Il cielo grigio si faceva più pesante: da cenere a fumo, da fumo a ferro, da ferro a piombo.
Oltrepassò una collina arida. Un cielo antrace, che sapeva di morte, gli intimò di fermarsi.
Davanti a lui: il vuoto. La terra si era inghiottita da sola in un cratere largo quanto un quartiere. Le pareti parevano vetro, carne e fango. Un occhio spalancato. Un dio morto.
Estrasse il diario. Il vento ne rubava pezzi. Sulla copertina, tra le incrostazioni, ancora si leggevano lettere sbiadite di un proprietario assente.
“Caro Giulio, ecco il tuo aereo”.
La voce roca si perse tra le correnti richiamate dalla morte.
Tornando sui suoi passi, nuovi colpi di tosse lo piegarono. Lunghi, ferrosi.
Prima di lasciare la piazza, raccolse dei sassi. Una coperta pesante. Per un amico leggero.
Una smorfia gli increspò le labbra. L’insegna sopra la sua nuova dimora diceva: “O Sole Tuo”.
“Ce n’è più qui che altrove, amico mio”, grugnì al diario.
L’uomo in grigio indossò la maschera. Se ne andò. Non si voltò.
La cenere cominciava già a posarsi su una nuova lapide di sassi. Così come su una targa di carta fragile, incisa a mano:

Qui Giulio è morto all’ombra del suo sole.
Qui nasco io, dalla morte di un mondo morto.
Addio amico mio. A presto. Noah.

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