A conclusione della Quaresima, inizia lunedì la Settimana santa, che ci conduce verso la Pasqua di resurrezione,domenica 12. Mentre la sera dell’8 aprile inizia la Pasqua ebraica, Pesach. Ma non si intravvede (era prevedibile) la fine della quarantena, che era prevista per il 3 aprile ed è slittata al 13. Solo in tempo di guerra, per noi ormai piuttosto lontana, la Quaresima era stata così cupa e triste, e così tanto penitenziale. L’auspicio è che la Pasqua porti segni di resurrezione non solo religiosa ma anche civile, che, come la Pesach ebraica da cui prende il nome (dura una settimana in Israele; nei paesi della diaspora un giorno in più; inizia in Italia la sera dell’8 aprile per concludersi il 16 aprile), segni, se non il passaggio, l’inizio del passaggio: alla normalità. Ma qui non ci occupiamo di virus e pandemie, e neppure, se non tangenzialmente, di religioni, bensì di gastronomia. E allora parleremo di Pesach sotto il profilo gastronomico, tenendo bensì conto che per l’Ebraismo le connessioni fra cibo e religione sono molto strette (più che per l’Islam, più che per il Cristianesimo). Commemorativa della fuga degli Ebrei dall’Egitto, Pesach inizia la sera del 14 Nissan (mese del calendario lunare ebraico che corrisponde più o meno ad aprile), che per la tradizione ebraica è già il 15, con una cerimonia chiamata “Seder”. Per rivivere il momento della loro liberazione dalla schiavitù e della loro nascita a popolo libero, gli Ebrei mangiano ogni anno a Pesach, per sette giorni (fuori di Israele otto), il pane azzimo. Non solo: devono eliminare dalla casa ogni traccia di lievito o sostanza lievitata, il che obbliga le donne ad una rigorosa e minuziosa pulizia (da quei l’espressione “pulizie di Pasqua”). Eseguita a fondo la pulizia, si introduce nelle case il pane azzimo (non lievitato), che in Ebraico si chiama “matzah” (come la “maza” dei Greci, una sorta di piadina di farina d’orzo non lievitata che ha preceduto il pane, più costoso e raffinato, a base di frumento). Il Seder contempla letture edificanti alle quali fa seguito una cena. Sul tavolo apparecchiato viene posto un cesto contenente tre pane azzimi (“matzah”), in ricordo del pane non lievitato mangiato nel deserto, una zampa d’agnello (“pesach”), in ricordo del “zevach pesach”, il sacrificio pasquale compiuto dal popolo che si accingeva a uscire dalla schiavitù, e verdure amare (“maror”), diverse in base a tradizioni e provenienza di chi celebra il Seder, in ricordo dell’amarezza patita dagli Ebrei in schiavitù. Oltre a questi tre simboli, nel cesto vi sono un uovo sodo e il “charoseth”, un impasto preparato anch’esso secondo ricette che variano a seconda dei vari luoghi di provenienza, che simboleggia la malta che gli Ebrei schiavi erano costretti a preparare in Egitto per edificare la città del Faraone, e consiste in un dolce impasto di frutti: datteri, noci, mandorle e altro. E ancora del sedano (“carpas”), che viene intinto in acqua e sale, o in acqua e aceto. «Sul tavolo viene posto, oltre al bicchiere destinato al Kiddush, alla santificazione della festa attraverso il vino e il pane, un altro bicchiere d’argento pieno di vino destinato al profeta Elia. La tradizione vuole infatti - si legge nel sito della Comunità ebraica di Bologna - che il profeta, durante la prima sera di Pesach, si aggiri fra le case degli Ebrei per portare i suoi voti augurali alle famiglie che celebrano il Seder. E ogni ebreo vive la speranza che l’Epoca messianica, della pace, dell’armonia, dell’amore fra tutti i popoli, sia proprio lì, dietro la porta di casa, porta che infatti, durante il Seder, viene lasciata aperta anche perché è detto: “chi vuole entri, mangi e celebri Pesach”».
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