Per non pochi di noi, segnati da esperienze limite, in relazione a quanto accaduto nei due ultimi anni, e a quanto stiamo ogni giorno vivendo nel 2022, e non soltanto in Europa, si pone con forte pregnanza la grande domanda sull’oltre. Che chiama in causa il mistero metafisico. Non so come si possa nominare l’oltre: Trascendenza, Dio, Altro, Infinito. O semplicemente “senso” dell’esistenza. Andrebbe – forse – cercato un linguaggio aggiornato, adeguato al presente. So, però, che, senza l’oltre, non esiste veramente niente di significativo e niente può essere vissuto. Nelle lezioni tenute a Friburgo nel 1929-30 (e non solo in queste, ma in tutte le sue opere), Martin Heidegger, ricordando il celebre frammento di Novalis in cui si afferma che «la filosofia è nostalgia, un impulso a essere a casa ovunque», lo attesta chiaramente. Essere a casa propria, secondo Heidegger, significa prendere dimora nella totalità del mondo, accettando il senso di solitudine proprio della finitezza, priva di trascendenza che caratterizza la nostra esistenza. Dunque: è bene cercare l’oltre. E per gli happy few continuare a cercarlo. Si profila così sull’orizzonte l’angosciante dilemma: meglio Sisifo con le sue insensate fatiche o pascalianamente la fede? La ragione può poco,anche se non può essere sonnolente e né ciascuno di noi essere in contumacia nella ricerca del senso dell’esistere. Rimane la fede. Ma quale fede? Non quella appresa (passivamente) come la lingua matrice e come la cultura di appartenenza,bensì una fede che vive della e nella problematicità religiosa. Il Natale di quest’anno, con la dovizia di un patrimonio triennale di eventi di estrema rilevanza mondiale, è l’occasione fondata per tentare di vivere siffatta fede o almeno per avviarne l’abbrivio. Può aiutare Ludwing Wittgenstein: «pensare al senso della vita» è pregare (Appunti 1914-16). L’etimologia del termine preghiera risale a precarius e suggerisce la situazione di bisogno dell’essere umano. «[…] tutte le culture portano al nostro orecchio l’immenso brusio di multiformi preghiere: preghiere di angoscia o di gioia, preghiere che palpitano sul ritmo infinito del respiro, preghiere cantate in canti a più voci, preghiere silenziose e preghiere che testimoniano e proclamano, preghiere scolpite nel marmo, preghiere modellate nell’argilla o intagliate nel legno, preghiere credenti e preghiere che si rivolgono a un destinatario senza nome» (Antoine Vergote, Sources et ressources de la prière in AA.VV., La prière du chrétien, Bruxelles 1981, p.61). Il pregare occupa quindi uno spettro cromatico variegatissimo che comprende mito e mistica, immanenza e trascendenza, verbosità e apofatismo, timore e amore, supplica e lode. Ma è sempre –sia pure con toni e accenti diversi – richiesta di relazione, di scambio, di reciprocità e, soprattutto, appello: attesta l’assunzione della propria radicale povertà. E si apre all’attesa. All’individuo postmoderno, propenso sempre più al fatalismo e ripiegato su di sé dopo il crollo delle ideologie e dei messianismi secolarizzati, giova ricordare l’essenzialità antropologica dell’attesa: «si fa spazio all’altro e per lui si scava in noi uno spazio» (E. Bianchi, Il libro delle preghiere, Einaudi, 2005, p.XVI). La persona, dunque, attraverso la preghiera ha la possibilità di aprirsi a una vita diversa, caratterizzata anche dall’indugio e dal raccoglimento, dal silenzio e dalla riflessione, dalla gratuità e dalla solidarietà. Si dischiude a una modalità esistenziale che la può far vivere gustando altre dimensioni dell’esistenza e guardando a prospettive inedite. Serve recuperare quel lievito che l’autentica religiosità oggi può dare agli umani, riscoprendo la preghiera come ricerca. Credo sia capitato un po’ a tutti all’improvviso di ritrovare insomma un passato stinto che si ricolora: quasi un brivido corre nell’anima anche di chi non prega più da decenni. Il che potrebbe affinare due consapevolezze. La prima: nessuna religione può rinnegare la verità posseduta, dal momento che ciò significherebbe tradire la propria fede. Tuttavia le religioni hanno il dovere di interrogarsi davanti alla verità dell’altro, non per lasciarsi “convertire”, bensì per far sì che la verità posseduta si dispieghi ulteriormente. Ci si deve lasciare interrogare dalla verità dell’altro, constatando che storicamente non si possiede mai la verità piena e che il confronto prima e il dialogo poi possono far lievitare una verità più grande. La seconda: credere nel dialogo inteso come allargamento degli orizzonti. Schiudersi alle altre categorie fino a comprendere e ascoltare l’altro (cristiano, buddhista, mussulmano eccetera) significa riconoscere lo statuto teologico altrui. Premessa radicale per farsi costruttori di pace.
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