Venerdì 7 ottobre, alle ore 18, alla Biblioteca Acclavio (Bestat) sarà presentato il libro di Claudio Martelli “Vita e persecuzione di Giovanni Falcone” (La nave di Teseo). Con l’autore ne parleranno Mario Guadagnolo, Biagio Marzo e Antonio Morelli. Qui di seguito, intanto, la recensione al libro dell’ex ministro di Grazia e Giustizia sul magistrato ucciso dalla mafia. Questo libro di Claudio Martelli andava scritto. Era nell’aria. Dopo la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio si avvertiva la necessità che qualcuno dicesse una parola chiara e definitiva sull’argomento. Certo di libri su Falcone e la mafia ne sono stati scritti a iosa, da Pino Arlacchi a La Licata, da Saverio Lodato a Salvatore Lupo, Bianconi e tanti, tanti altri. Ma mancava la testimonianza di prima mano di un protagonista di quegli eventi, uno che quei fatti li ha vissuti dal di dentro, uno che è stato un amico sincero di Falcone e che ha combattuto insieme a lui e in maniera convinta come lui la sua stessa guerra, insomma uno che parlasse di Falcone da amico e non per ragioni professionali da giornalista o storico. Ed infine questo libro è arrivato meditato, pensato, rimuginato. Claudio Martelli questo libro aveva pensato di scriverlo già dal giorno dopo l’assassinio di Paolo Borsellino vivendolo come un atto dovuto, un debito alla memoria e all’amicizia per l’amico, un risarcimento postumo nei confronti di chi è stato massacrato in vita e che continua ad essere massacrato in morte da coloro che ne usurpano il nome e l’eredità dopo averlo infangato in vita. Ma questo libro è stato scritto soprattutto come atto dovuto nei confronti della verità. “Adesso si scateneranno i corvi dell’informazione, gli inquinatori della verità in servizio permanente effettivo, quelli che sono al sevizio dei depistaggi utili alla mafia e ai suoi fiancheggiatori” si sarà detto Martelli. Già perché lui la verità la conosce dal di dentro per essere stato uno dei protagonisti principali di quella tragica stagione. In questo libro non c’è la verità di Martelli su Falcone, c’è la verità. Punto. E’ lo stesso Martelli che si confessa e con molta onestà intellettuale gioca a carte scoperte col lettore “Questo che ho appena finito di scrivere è una storia che mi ribolle dentro da trent’anni, da quando la mafia sventrando quell’autostrada massacrò Giovanni Falcone… Ho pensato a questo libro ogni anno di questi trenta trascorsi come si pensa ad un debito che devi restituire, un debito con Giovanni e con me stesso. Ci ho pensato tutte le volte che ho visto sfilare in Tv e nelle commemorazioni ufficiali di Falcone accanto ai parenti e ai pochi che gli hanno voluto bene anche coloro che lo hanno detestato, lottato, infamato, quand’era in vita e che, da quando è morto, si ripropongono come amici di Falcone e addirittura come suoi eredi.” Martelli non dimentica i vari Leoluca Orlando Cascio, gli Alfredo Galasso, i padre Pintacuda per i quali ”il sospetto è l’anticamera della verità” ai quali Falcone opponeva che “il sospetto è l’anticamera del Komeinismo” cioè intolleranza e sopruso che rimproveravano a Falcone di essersi “venduto” alla politica e ai socialisti. Lui non era come Orlando e Pintacuda perché riteneva il suo lavoro un servizio da rendere allo Stato non alla politica poichè era un uomo dello Stato e soprattutto era un garantista, uno che prima di mandare a giudizio anche il peggiore dei mafiosi riteneva si dovessero avere prove inoppugnabili da reggere ad un dibattito processuale. Il primo imput a scrivere questo libro erano state le parole di Paolo Borsellino pronunciate il 25 giugno 1992 nella Biblioteca di Palermo dopo la morte di Falcone e prima di essere massacrato lui stesso in Via D’Amelio “Ripercorrendo queste vicende della vita professionale di Falcone ci accorgiamo di come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, cominciarono a far morire Falcone nel gennaio 1988”. Come si vede una precisa denuncia delle infamità, delle ipocrisie, delle responsabilità morali (ma anche concrete) della parte malata e deviata di certa magistratura ma soprattutto l’indicazione di un percorso. Martelli in questo libro parte proprio da quel discorso e racconta gli ultimi cinque anni della vita di Falcone quando ormai il magistrato era diventato il nemico numero uno di Cosa Nostra che aveva decretato la sua eliminazione. Ma vi aggiunge nel titolo la parola “persecuzione”, indubbiamente una parola forte, poiché in quegli stessi cinque anni Falcone era stato anche il bersaglio di quella parte della magistratura che voleva anch’essa la sua morte. Martelli parla di quegli anni come di una via Crucis per il magistrato che inevitabilmente avrebbe portato alla crocifissione e alla morte. Questo calvario inizia con la bocciatura della candidatura di Falcone a capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo, una “retrocessione” la definisce Martelli, poiché il magistrato quando si propose per sostituire Caponnetto era di fatto già il leader del pool, il vero capo dell’Ufficio per la sua competenza, le sue capacità di leggere i fatti mafiosi, la novità del suo metodo di indagine e per il suo curriculum eccezionale non paragonabile a quello di nessun altro magistrato. La maggioranza del CSM gli preferì Antonino Meli per una risibile ragione burocratica e procedurale. Meli non aveva alcuna esperienza né competenza specifica di processi di mafia, ma era più anziano. In nome di questa norma Falcone fu bocciato e umiliato norma che tra l’altro era stata violata proprio nel caso di Paolo Borsellino promosso Procuratore della Repubblica a Marsala per meriti acquisiti sul campo che avevano fatto aggio sulla maggiore anzianità del suo concorrente. E qui Martelli pone due problemi che sono il filo rosso che scorre per tutto il libro: il primo riguarda il perché di quella bocciatura e l’altro, di altissimo profilo filosofico ed etico, riguarda il dovere etico dell’uomo tout court. Sul primo tema si chiede “Qual è la vera ragione della bocciatura di Falcone? E’ possibile derubricare quella bocciatura a ragioni di contrasti interni alla magistratura o peggio a banali rivalità, invidie e gelosie di mestiere da parte di colleghi invidiosi del suo prestigio e della sua esposizione mediatica?” La risposta è no. Sarebbe davvero banale darsi questa spiegazione rifiutata prima di tutto da una persona lucida e capace di guardare dentro ai fatti di mafia come Paolo Borsellino che in quel famoso discorso nella Biblioteca di Palermo aveva parlato di una magistratura colpevole di aver cominciato a far morire Falcone già nel 1981. La verità è che dietro quella bocciatura c’era il progetto di chi, animato da un preciso disegno politico, bocciando Falcone e impedendogli di svolgere il suo lavoro, intendeva sminuire il significato e la portata storica ed esemplare del maxiprocesso e revocarne in dubbio i suoi presupposti giuridici per preparare il terreno alla riforma della sentenza in appello e poi alla sua definitiva cancellazione da parte della Cassazione. Coloro che avevano in mente questo progetto politico (le “menti raffinatissime” di cui parlò Falcone quando commentò l’attentato dell’Addaura a cui scampò per un caso) erano gli stessi appartenenti a quella zona grigia (magistratura deviata, politica, imprenditoria malata, poteri occulti) che sostenevano e sostengono che con la mafia occorre convivere per non sconvolgere equilibri di potere consolidati da convivenze, complicità e contiguità secolari tra pezzi dello Stato e mafia. Quegli ambienti formalmente e a parole facevano professione e mestiere di voler lottare contro la mafia in realtà volevano che le cose rimanessero quelle che erano secondo la logica del queta non movere. L’altra questione di altissimo profilo filosofico ed etico che pone Martelli e che investe la stessa visione etica dell’uomo è: cosa è più importante la sottomissione acritica alla regola, alla corporazione, alla norma astratta oppure il superiore interesse pubblico e la fedeltà allo Stato prima che alla propria corporazione? In concreto nel caso di Falcone era più importante assegnargli il ruolo di Capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo e quindi perseguire il superiore interesse dello Stato a continuare in maniera efficace e incisiva la lotta alla mafia così come Falcone aveva dimostrato sul campo di saper fare o l’osservanza della norma che premia il codicillo dell’età rispetto al bene comune dell’efficienza? Martelli nel libro non ha esitazione e ragionandone con Falcone e riscoprendo comuni ascendenze giovanili per Mazzini, conclude che nelle scelte dell’uomo deve prevalere sempre e in ogni caso l’obbligante imperativo del dovere. Il libro di Martelli si diffonde in maniera minuziosa e circostanziata sulle traversie di Falcone, sul suo metodo di indagine innovativo e rivoluzionario, sulla novità dell’idea che le indagini sulla mafia non possono essere appannaggio del lavoro di un singolo magistrato ma, secondo l’impostazione che era già di Rocco Chinnici, patrimonio di un gruppo, di un pool che si scambia e socializza idee, informazioni, competenze corroborate dal confronto con meccanismi e sistemi di indagine con polizie e magistrature sperimentate come l’FBI americana con cui Falcone aveva stabilito degli importanti e proficui rapporti di collaborazione. Dal libro emerge un Falcone buono, intelligente, dotato di grande ironia, animato da una grande passione civile, rispettoso dei ruoli e soprattutto dell’indagato, garantista fino all’eccesso, capace di rispetto dell’indagato ancorchè mafioso e assassino a cui, come a Buscetta, è capace di stringere la mano senza confusione di ruoli dell’uno che rimane stato e dell’altro che rimane antistato. Con una prosa accattivante, nervosa, analitica Martelli racconta la sua esperienza al Ministero di Grazia e Giustizia, il suo primo incontro con Falcone, il suo lavoro gomito a gomito con lui, il grande affetto e l’amicizia che lo hanno legato a lui e il grande dolore per la sua morte. “E’ un colpo al cuore. Il giorno più brutto della mia vita. Poi uno strazio e un dolore senza fine e senza rimedio”. Queste le parole con cui in maniera asciutta, come un pianto senza lacrime, Martelli commenta l’annuncio che gli viene dato della morte di Falcone. E poi la grande condivisione di lavoro con Enzo Scotti, un grande Ministro degli Interni, con cui Martelli e Falcone hanno lavorato. “Attenti a quei due” qualcuno aveva detto quando Martelli chiamò Falcone a ricoprire l’incarico di Procuratore generale antimafia al Ministero di Grazia e giustizia. Attenti a quei tre disse qualcun altro quando ai due si aggiunse Scotti. Dopo qualche anno tutti e tre saranno stati fatti fuori. Coincidenza o lavoro di “menti raffinatissime”?
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