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Il tacchino, che arrivò in Europa come "Gallo d'India"

Un tacchino

Un tacchino

L’iguana al peperoncino, che pure ai primi Spagnoli approdati nel Nuovo Mondo (che credevano ancora fossero le Indie...) non dispiacque affatto, specie dopo che l’Ammiraglio in persona, Cristoforo Colombo, l’aveva giudicato piatto eccellente e soave al gusto e al palato, esortandoli mangiarne, rimase confinata nelle Indie. Da dove arrivarono nel Vecchio Mondo, insieme con oro perle e monili, soprattutto curiosità vegetali, poche delle quali furono subito accettate come alimenti (fu facilissimo, per contro, accettare i fagioli, perché quasi identici al dolichos europeo, il cosiddetto fagiolo dall’occhio, che quasi scomparve, surclassato dai fagioli americani; un po’ come accadde con le zucche: quelle del Nuovo Mondo erano più grandi e polpose); e sostanzialmente un solo animale (mentre gli animali europei invasero le Americhe, così come alcune colture, dalla canna da zucchero al caffè, più tardo): il tacchino. Vistoso come un pavone, ma molto più grosso e con carni molto più buone, facile da allevare come il pollame e più delle oche, il tacchino conquistò subito le tavole europee. Colombo lo “incontra” per la prima volta nell’attuale Honduras, e in una lettera ai sovrani di Spagna del 1503 lo definisce “un grandissimo uccello con piume come di lana”. Chi lo importerà massicciamente in Europa sarà però una ventina d’anno dopo Hernàn Cortés, intento alla conquista del Messico. Per la sua decorativa ruota, simile (per quanto meno bella...) a quella del pavone, gli Spagnoli lo chiameranno “pavo”. I Francesi, per la sua provenienza dalle Indie, lo chiameranno, così come faranno gli Italiani, “gallo d’India” (ovvero coq d’Inde, che sarà poi abbreviato familiarmente in “dinde” o “dindon”, nomi che gli sono rimasti); i Tedeschi specificarono addirittura una sua provenienza da Calcutta (ancora la confusione fra le Indie), chiamandolo Calecutischerhahn, “gallina di Calcutta” (oggi il suo nome è Truthahn). In Inghilterra, come in Olanda, seguendo l’andazzo di battezzar turco o saraceno qualsiasi alimento di provenienza straniera, il tacchino diventò “turkey” e “turkije”. I Turchi, invece, lo chiamarono “peru”, dal Perù (se non altro, avevano azzeccato il continente), e “peru” fu il nome del tacchino anche in portoghese. Il nome italiano, tacchino (in alcune regioni “pitto” o “pittino”), sembrerebbe invece una onomatopea, derivata dal caratteristico verso. Il nome scientifico è Meleagris gallopavo L., che sempre richiama il pavone. Il gallo d’India veniva anche cucinato in Messico con una salsa di cacao; l’antenata di quel mole poblano che è l’apoteosi dell’americanità: una salsa dalle mille varianti, tipica della città di Puebla, che contempla comunque la presenza di peperoncini di diverse qualità, pomodoro, cacao e varie spezie, nella quale si completa la cottura del tacchino inizialmente rosolato (ma col mole poblano si preparano anche pollo, maiale, pesce o frutti di mare). Il gallo d’India sbarca presto anche nei ricettari. Già nel 1570 lo ritroviamo nell’Opera di Bartolomeo Scappi, autentica Summa della gastronomia del Rinascimento, sotto la rubrica “Per arrostire il gallo, et la gallina d’India, liquali in alcuni lochi d’Italia si dimandano pavoni d’India”, con l’avvertenza che non va fatto frollare; per la cottura allo spiedo può essere lardellato o meno (cosa non necessaria, avverte Scappi, perché è “grasso e pieno”), ma necessita di chiodi di garofano. Beninteso, Scappi cita anche ricette di grande complicazione, molto più nello spirito del Rinascimento: i tacchini, come riporta Silvio Torre nel suo godibile “Colombo. Un nuovo mondo a tavola” (IdeaLibri), possono essere presentati “ripieni di ortolani e coperti di sparagi grossi cotti nel butirro, stecchi di cannella con tartufi grossi stufati in cima”, oppure “coperti di cardi, cervellati e formaggi”, o ancora “ripieni di uccelletti, cervelletti e tartufi arrostiti con capperi sopra e melangoli”. Qualche chiarimento: gli ortolani sono uccellini canterini di dimensioni simili a quelle dei passeri che tuttoggi, specie nel bresciano, si preparano allo spiedo e servono su crostoni di pane dorati nel burro fuso (in realtà si tratterebbe di un piatto proibito, perché gli ortolani, troppo piccoli per essere abbattuti a fucilate, dovrebbero essere catturati con reti o trappole, e la loro caccia è proibita). Nel Sud Ovest della Francia, catturati vivi, vengono sottoposti chiusi in strette scatole di cartone ad alimentazione forzata con miglio, per tre settimane, finché raddoppiano di peso, quindi annegati nell’Armagnac e cotti. Anche qui, si tratta di una preparazione vietata nei ristoranti. Gli sparagi cotti nel butirro sono gli asparagi al burro, i cervellati sono sottili salsicce, prevalentemente di carne suina, delle quali Messisbugo, nel suo libro apparso postumo nel 1549, dà la ricetta: coscia di maiale ben pestata Kg 8,6 circa; formaggio piacentino grattato g 950; spezie in polvere: pepe g 43, cannella g 29, chiodi di garofano g 14, zafferano g 3, incorporando bene il tutto con g 430 di sale e imbudellando.
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