Quando parliamo di gastronomia medievale, o anche solo di cucina medievale (cucina è l’arte della trasformazione degli alimenti; gastronomia è tutto quello che riguarda non solo la cucina ma anche la composizione ed ordine dei pasti e dei banchetti, e tutto ciò che ruota intorno a nutrizione e convivialità), ci riferiamo in realtà al cosiddetto Basso Medio Evo, perché dell’Alto Medio Evo, che, semplificando molto, è il periodo che intercorre tra la deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente (Romolo Augustolo, 456 d.C.) e il fatidico anno Mille, sappiamo molto poco. In realtà, dopo il trattato di Apicio (nucleo di I secolo d.C:, redatto nella forma ampliata che ci è arrivata tra III e IV secolo; al De re coquinaria vero e proprio è allegato l’estratto redatto nel V secolo da Vinidarius, i cosiddetti Excerpta, che presenta anche qualche ricetta che nel testo originario non c’è più), bisogna attendere il XIII secolo per trovare qualche appunto di cucina. Ben oltre l’anno Mille, insomma. Per questo, al di là della sua scarna consistenza, e scarsa importanza medica, assume una eccezionale importanza una epistola della prima metà del VI secolo stesa in un Latino molto imbastardito da un medico bizantino fuggito in Occidente, alla corte di Teodorico re dei Goti, e da questi inviato come ambasciatore alla corte di un re dei Franchi di nome anch’egli Teodorico. Il manoscritto più antico che possediamo è di IX secolo, e fa parte di una collezione di testi medici, poi ne sono state ritrovate altre copie. E’ noto come “De observatione ciborum”, ed è un trattatello di dietetica che il medico Antimo indirizza al re dei Franchi con consigli nutrizionistici e veri e propri abbozzi di ricette, oltre a notazioni sulle qualità degli alimenti, e sulle cotture più adatte, legate alla dottrina degli umori ma anche alla visione ippocratica che lega il “regime” (non solo alimentare) anche alla natura dei luoghi. I n disaccordo con le tradizioni di Bisanzio, dove il garum continuò a godere di ottima reputazione fino alla caduta dell’Impero, nel XV secolo, il bizantino Antimo non ama la salsa di pesce che Greci e Romani ebbero in gran pregio; ma dalla sua testimonianza, così come da registri di spesa, sappiamo che il suo uso resisteva nel VI secolo (ed oltre) anche ad Occidente, fra i Goti ed i Franchi; solo che in Italia e Francia non si produceva più, lo si importava da Costantinopoli, a caro prezzo (e probabilmente a quei barbari veniva pure rifilato un prodotto di scarto). Per il resto, la cucina di Antimo è in linea con quella apiciana (senza le complicazioni da alta cucina di parte dell’opera di Apicio); molto meno con quella che ritroveremo fra XIII e XIV secolo in Scandinavia, in Italia, in Catalogna, in Francia, in Inghilterra ed in Germania; la “vera” cucina medievale, dove c’è anche una certa influenza araba. Vivendo in mezzo a barbari che però non può certo chiamare così, Antimo nella sua lettera al re dei Franchi con osservazioni sul cibo si destreggia fra il suo retaggio ideologico e scientifico greco (infatti scrive spesso “noi Greci”) e la necessità di non disprezzare le usanze di Goti e Franchi (Franchi, soprattutto). Come quella di consumare lardo crudo, giustificata come una specie di ricorso alla medicina naturale più che alla gastronomia (per un greco cibarsi di carni crude è un atto più bestiale che umano...), o di bere birra, bevanda disprezzatissima dai Greci in ogni tempo. Antimo passa in rassegna numerose carni, che suggerisce di preparare in lesso, stufato o “al vapore” (?). In alcuni casi ci dà ricette vere e proprie; come quella per la carne vaccina “in iuscello”, ovvero stufata “in un sughetto”. Dopo una prima lessatura in acqua, la carne si mette in una pentola di terracotta con aceto molto aspro, miele, teste di porro, mentuccia, radice di sedano o finocchio e si fa stufare per un’ora. Si pestano quindi nel mortaio pepe, chiodi di garofano, costo e lavanda, si stempera in vino e si aggiunge in pentola, agitandola bene perché il vino speziato si amalgami con la salsa di cottura. Quasi a fine cottura aggiungere altro miele o vincotto. Il sale non figura fra gli ingredienti, o è saltato. Fra gli indispensabili pesci – alimento obbligato nei giorni di magro – Antimo, come i successivi autori del Basso Medio Evo, privilegia quelli d’acqua dolce, più facilmente reperibili e più freschi, ma si sofferma poco, ed ha una ricetta per il “pecten”, un mollusco marino bivalve che è con ogni probabilità la cappasanta, o coquille Saint Jacques, che va lessato o arrostito nelle sue valve. Una cottura citata da Aristotele, che suggeriva di cuocere alla griglia le cappesante nella loro conchiglia e di cospargerle poi con aceto, per temperarne la dolcezza. I ceci van cotti bene, fino a disfarsi, e si condiscono con olio e sale. Il melone ben maturo va condito con posca (bevanda a base di acqua e un po’ di aceto) aromatizzata con puleggio (erba aromatica conosciuta anche come mentuccia).
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