Cerca

Cerca

Vittorio Alfieri, il poeta che andò contro la tirannide

Vittorio Alfieri

Vittorio Alfieri

Aveva di se stesso detto: “Odo già dirmi, Vate nostro in pravi secoli nato / eppur create hai queste divine età/ che profetando andavi”. Quel vate di se stesso era Vittorio Alfieri; così nella chiusa di un’opera anti rivoluzione francese, nei suoi eccessi ghigliottinari, chiamata il “Misogallo”. Ma vate di che? Di quelle età divine che per lui erano i giorni della libertà e dell’indipendenza da ogni tirannide; l’opera tragica alla quale aveva affidato i suoi versi anti tirannide, sono in più tragedie, ma soprattutto nel Bruto II, tragedia sulle idi di marzo, originata dalla lettura di Plutarco. L’Alfieri scrisse la tragedia nel 1789. La scelta del genere letterario tragico rispecchiava psicologicamente la esigenza individualistica del poeta eroe. Tutta l’opera tragica del poeta astigiano è il necessario atto di fede di una rivoluzione prossima italiana contro ogni forza liberticida straniera; in lui era presente l’urgenza, che Croce definì protomantica, di vivere fra popoli liberi; e libero, non era quello italiano. Il concetto della libertà contro ogni sopruso e contro ogni forza schiavistica gli veniva dalle migliori pagine della rivoluzione francese, prima che essa si trasformasse nella dittatura di Robespierre e nelle giornate di sangue innocente: di qui il suo “Misogallo“, da seguace ad odio verso quella rivoluzione. Allora il mito divenne il grande storico Plutarco, che nelle “Vite parallele” aveva realizzato binomi famosi come Alessandro e Cesare, o Demostene e Cicerone, e, soprattutto, esaltando la virtù combattiva con l’azione e col pensiero e con la parola. Alfieri leggeva Plutarco, come racconta nella sua opera biografica: “La vita” esaltandosi alle gesta degli eroi e motivando le sue tragedie su riflessi tragici greci e biblici come il “Saul” o il “Bruto I” e il “Bruto II”. E nella tragedia sempre il conflitto scoppia tra il tiranno e l’eroe, e vittima ne è l’eroe. Ma i suoi tiranni hanno sovente lo sguardo allucinato, sono in preda a furori, a pentimenti celati, oppure ad improvvise ire. Gli eroi, invece, conservano una nobile dignità, una cristallina fierezza e vanno eroicamente incontro al loro destino di morte. Proprio per questo nuovo stile, nervoso e irto di sentenze a volte oratorie, proprio per questa nuova atmosfera di libertà, dopo le inclinazioni di schiena alla Metastasio e i baciamani arcadici e salottieri, la tragedia alfieriana rompeva gli argini del conformismo e restituiva all’uomo la sua dignità dell’essere uomo: la sua virilità d’agire per la libertà. Le generazioni che vennero dopo di lui (Alfieri morirà nel 1803) più che un programma da eseguire, trovarono un atteggiamento spirituale, una decisa personalità: sul volto dell’Alfieri Foscolo trovava il pallore della morte e la speranza. In Alfieri c’era una fede: uno stimolo a una nuova vita. Gli italiani videro in lui non un apostolo del Risorgimento come fu Mazzini, ma un milite della libertà; individuale e collettiva. Si parlò di un superuomo alfieriano: non era né vero né giusto dire in tal senso; l’uomo alfieriano era solo un combattente, eroe della libertà: anzi un eroe religioso se la libertà è una religione dello spirito umano.La sua poetica, meglio il suo pensiero, si desume dall’opera “Della tirannide”. L’uomo libero che si oppone al despota. E se l’eroe deve morire, muoia intemerato e consegni agli altri il monito del suo sacrificio; e così lo scrittore (in altra opera dal titolo “Del Principe e delle lettere”) deve mai essere a servizio di un padrone, mai essere ingaggiato da un partito o da una fazione, ma deve essere un uomo con l’anelito alla giustizia, alla libertà. Insomma, mai cortigiano di questo o quel potere. Cosa oggi avrebbe detto Alfieri a fronte di tanti scrittori e scrittorelli cortigiani del potere politico incombente? Alfieri, dunque, è il primo degli italiani ad aver avviato un popolo, ancora inerte e incatenato nella schiavitù straniera, all’idea o all’ideale della resurrezione politica nella libertà. Invero alle sue spalle c’era Giuseppe Parini, che con la sua ode “La caduta”, aveva mandato il primo messaggio di indipendenza personale dal ricco padrone. E quando Leopardi, nella sua lirica “Ad Angelo Mai”, nel finire della stessa scrisse: “Vittorio mio, questa per te non era / età né suolo”, voleva proprio riferirsi al suo tempo, ancora ai principi dell’Ottocento dominato dal potere temporale papale e dalle dominazioni straniere. Leopardi scriverà il canto o la canzone “Italia mia” poco dopo, nel 1818. Disse del suo tempo, che era “un secolo di fango”. E noi oggi? Che dire? Paolo De Stefano
Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Buonasera24

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Termini e condizioni

Termini e condizioni

×
Privacy Policy

Privacy Policy

×
Logo Federazione Italiana Liberi Editori