Estate 1979, quarant’anni fa, allo Yachting Club “del Faro”, sbarcò La Smorfia. Spettacolo in due tempi, protagonisti tre ragazzi baciati dal successo di “Non stop”, i napoletani Massimo Troisi, Lello Arena ed Enzo Decaro. Napoletani, anche se in realtà venivano, nell’ordine, da San Giorgio a Cremano, Napoli e Portici. Il regista Enzo Trapani si era inventato una tv tutta nuova, una “ballata senza manovratore”. Quella stagione televisiva irripetibile trascinò al successo anche Carlo Verdone, i “Gatti” Gerry Calà e Umberto Smaila, i Giancattivi Francesco Nuti, Alessandro Benvenuti e Athina Cenci, Zuzzurro e Gaspare, e altri ancora. Decaro a Taranto, per la Stagione di spettacoli promossa al teatro Orfeo dai fratelli Adriano e Luciano Di Giorgio, a Martina Franca per il cartellone della Stagione di spettacoli al teatro Verdi. In scena uno dei classici di Peppino De Filippo, “Non è vero ma ci credo”. Cosa è cambiato, a due, tre generazioni di distanza nella vita artistica di Enzo Decaro? «Ritrovarsi qui, dopo quarant’anni a trovare un punto d’incontro fra tradizione e innovazione, con il lavoro che stiamo portando in scena, fra i tre De Filippo che noi amiamo, è importante, altrettanto come mettere in scena codici e linguaggi da salvaguardare». “Non è vero…”, la scaramanzia potrebbe sembrare fuori contesto, invece è sempre drammaticamente attuale. La gente sembra che non sappia più a cosa aggrapparsi. La stessa scaramanzia ha provocato danni nell’ambiente dello spettacolo. «Nello spettacolo produce ancora danni notevoli, è una di quelle credenze che andrebbero picconate per demolire una mentalità tristemente e saldamente radicata nell’inconscio collettivo; ci vorrà molto altro tempo per averne ragione, toccherà alle future generazioni prendere distanza da queste pessime abitudini». Troisi, tuo compagno di lavoro ne La Smorfia, ha lasciato un vuoto che compagnie e attori napoletani hanno provato a colmare. «Molti di questi presentano progetti, qualcosa cioè che ha a che fare con lo studio, un attento lavoro svolto per mettere in scena un qualsiasi titolo. A me, più modestamente, piace pensare che quanto fatto principalmente da Massimo, anche ai tempi del trio, possa essere stato uno spunto, un incoraggiamento a quanti si avvicinavano a un cinema o un teatro brillante, sicuramente impegnativo indipendentemente da una cifra comica o drammatica». Non ci sono più i “Non stop” di una volta. «La tv è un prodotto della società in cui viviamo, diciamo che ai nostri tempi pensavamo e ci divertivamo in modo diverso. Tanto che, oggi, nel bene e nel male il piccolo schermo riproduce media mente quello che circola in questi anni. Diverso sul finire degli Anni 70, e parlo di Napoli, quando esistevano i Pino Daniele, Enzo Gragnaniello, Roberto De Simone, i Bennato, Senese e altri; si tiravano fuori pensieri e idee, a nessuno balenava nella mente una spregiudicata caccia al successo, a prescindere di come si arrivasse a questo; oggi è tutto cambiato, e non è solo certa teatralità napoletana ad averne risentito». La scelta di Peppino De Filippo, autore di “Non è vero ma ci credo”, naturale, studiata. Peppino autore ha spesso rivendicato copioni e battute condivisi con Eduardo. «Peppino è stato un attore straordinario, mai abbastanza rivalutato, come nel tempo accaduto per il grande Totò; in realtà la scelta di questo copione nasce da una volontà precisa, dedicare lo spettacolo a una grandezza, forse, mai riconosciuta in senso compiuto; lo stesso Luigi De Filippo, figlio di Peppino, aveva in mente un progetto da dedicare alla memoria del padre, nonostante fosse anche vicino allo zio Eduardo, che lui amava immensamente; infatti, “Non è vero…”, fa parte del teatro dei De Filippo, quando ancora Eduardo, Titina e Peppino lavoravano insieme, tanto che risulta naturale che battute e idee, poi maturate in ambiti separati, scaturivano dalla loro incredibile fucina teatrale, artigianale, artistica, una genialità inarrivata e inarrivabile; così considero che la scelta sia stata abbastanza naturale, onorando tanto una tradizione quanto un repertorio, che consentisse anche un salto nell’innovazione, nei codici di linguaggio». Rispetto e impegno nell’entrare in un personaggio che Peppino si era magistralmente cucito addosso. «In realtà è l’approccio globale che mi interessava di più, entrare nel progetto, una scrittura e una messa in scena condivisa con Leo Muscato, provvidenziale nel rispettare questa necessità innovativa prestando massima considerazione per la tradizione; per il resto, ho semplicemente cercato di calarmi nel personaggio con il gusto di spettatore, cercando di trasferirne sentimenti e caratteri della commedia, magari rinunciando a qualche atteggiamento di farsa; in sostanza, ho trovato interessante andare nella direzione della disperazione patologica del personaggio che, certo, fa anche ridere, ma che solo alla fine – posto davanti davanti a una scelta importante – si ravvede». Quanto teatro, tv e cinema nel tuo futuro? «Non sono capace nel fare calcoli, per me è sempre importante lo spessore di un progetto, in qualsiasi direzione esso vada; proprio come accaduto per onorare la memoria del grande Peppino, per far conoscere alle nuove generazioni l’esistenza di questo tipo di teatro e quanto valga la pena di andare a vederlo, a riprenderlo, studiarlo, divulgarlo. Sarebbe un vero peccato dimenticarsene…».
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