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Taranto
07 Dicembre 2025 - 06:17
Il vertice sull'ex Ilva a Roma - archivio
TARANTO - Il comunicato congiunto, diramato dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy (Mimit) e dalle Istituzioni Pugliesi (Regione, Provincia e Comuni di Taranto e Statte) lo scorso 5 dicembre 2025, forse intendeva delineare una strategia risolutiva per il futuro dell'ex Ilva di Taranto, incentrata sul rilancio produttivo e sulla reindustrializzazione del sito. Però la proposta è stata immediatamente accolta con marcato scetticismo, sollevando tre contestazioni fondamentali che ne mettono in discussione l'effettiva attuabilità operativa, specialmente nel breve termine.
La prima e più rilevante critica verte sulla netta discrasia temporale e strutturale tra i due obiettivi dichiarati prioritari, il rilancio produttivo, inteso come azione immediata, e la decarbonizzazione, proiettata su un orizzonte di lungo periodo. Il Ministro Urso ha, infatti, ribadito che non è previsto alcun piano di chiusura immediata né di "spezzatino" e che l'imperativo è ripristinare una capacità produttiva di almeno 4 milioni di tonnellate entro il prossimo marzo, garantendo così la fornitura di coils agli stabilimenti del Nord.
Per conseguire e mantenere i 4 milioni di tonnellate nel breve periodo, l'azienda sarà costretta a un utilizzo intensivo dell'attuale Area a Caldo, il che implica il ricorso al ciclo integrale alimentato a carbone (cokerie, altiforni, convertitori). Tale ciclo, tuttavia, costituisce la principale fonte di emissioni di CO2 e di inquinanti nocivi ed è da anni al centro di complesse inchieste giudiziarie e dibattute sentenze ambientali.
Di conseguenza, dichiarare la decarbonizzazione come "prioritaria" mantenendo al contempo il pieno sfruttamento del ciclo a carbone genera una evidente ambiguità. La critica sostiene che l'obiettivo del rilancio si configuri, in sostanza, come una manovra dilatoria volta a posticipare indefinitamente l'autentica transizione ecologica e quindi la soluzione definitiva della Vertenza.
Fino a quando non saranno pienamente operativi gli impianti a basso impatto, come i Forni Elettrici (EAF) alimentati da gas naturale o da idrogeno/DRI (Direct Reduced Iron), il cosiddetto "rilancio" equivale al mero mantenimento dello status quo ambientale, anziché all'avvio di un effettivo cambiamento strutturale.
La seconda contestazione è intimamente connessa alla prima, ma si concentra sull'effettiva condizione fisica degli impianti. L'Area a Caldo, secondo l'analisi degli osservatori, rischia di essere spenta non per una concertata decisione politica, quanto piuttosto per l'inevitabile deterioramento strutturale e operativo. Gran parte degli apparati del ciclo a caldo, in particolare gli altiforni, risulta vetusta, a causa della necessità di manutenzioni e di rifacimenti trascurati negli ultimi anni.
Il rischio incombente è che, in assenza di una radicale e celere sostituzione del "vecchio" ciclo a carbone con il "moderno" ciclo green, gli altiforni esauriscano la loro vita utile o subiscano guasti gravi che ne determinerebbero lo spegnimento definitivo. Questo scenario si può definire "spegnimento per consunzione".
Se l'Area a Caldo dovesse arrestarsi per ragioni tecniche, e non per la programmata attivazione del ciclo green, si verificherebbe un blocco totale della produzione siderurgica a Taranto, con il conseguente crollo occupazionale, senza la possibilità di attivare immediatamente gli ammortizzatori sociali legati a una transizione industriale pianificata. La proposta del 5 dicembre non fornisce, pertanto, adeguate garanzie sulla tempestività e sull'effettiva disponibilità dei capitali necessari a prevenire questo non auspicabile scenario.
Il terzo punto critico riguarda il piano di reindustrializzazione presentato dal Ministero come soluzione a lungo termine per la diversificazione economica del territorio tarantino. Il comunicato annuncia l'individuazione di oltre 15 cosiddetti progetti d’investimento (manifattura avanzata, energia, logistica, etc.) e la messa a disposizione di vaste aree industriali e demaniali, tra cui 140 ettari immediatamente disponibili nell'ex Ilva e 350 ettari di altre aree. L'uso della definizione "potenziali progetti" è l'elemento centrale della critica.
Tali iniziative non sono, infatti, equiparabili a contratti d'investimento vincolanti, né a finanziamenti già formalmente approvati. I progetti si configurano al massimo come mere ipotesi, ovvero intenti generici che devono ancora superare lunghi iter burocratici, l'ottenimento dei permessi, la sicurezza dei finanziamenti (pubblici o privati) e, non da ultimo, l'onerosa bonifica delle aree industriali, che sovente ricadono all'interno o nelle immediate vicinanze del S.I.N. di Taranto.
Sebbene l'obiettivo dichiarato sia quello di indirizzare le ricadute occupazionali ai lavoratori ex Ilva e dell'indotto, la creazione effettiva di posti di lavoro derivanti da nuovi insediamenti produttivi richiederebbe un periodo assai dilatato nel tempo. E, infatti, la critica argomenta che si sta proponendo una promessa a lungo termine, la reindustrializzazione, come immediato rimedio a un problema invece urgente, la crisi del settore siderurgico e gli esuberi, creando l'illusione di una rapida e concreta alternativa economica.
Le contestazioni mosse non intendono negare la rilevanza strategica degli obiettivi posti dal Governo, ma ne sottolineano la genericità e le criticità della tempistica, suggerendo che la proposta del 5 dicembre 2025 si configuri più come un atto politico volto al contenimento dell'emergenza sociale che come un solido e realisticamente attuabile piano industriale.
Rimangono i dubbi fondamentali.
Chi e come finanzierà e gestirà il rilancio produttivo e la bonifica/decarbonizzazione?
Quando e in che modo i "potenziali" progetti di "reindustrializzazione" si trasformeranno in realtà operative con effettivo assorbimento occupazionale?
Quali sono le misure concrete a garanzia dei lavoratori nel periodo di transizione?
E così, dopo le dichiarazioni della Sindaca di Genova, incombe adesso, anche più di prima, la temuta ipotesi dello "spezzatino".
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