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SPECIALE FESTIVITà

Santa Cecilia, il giorno in cui Taranto profumava di Natale

La memoria di una città tra riti antichi, profumi di casa e musiche che segnavano l’inizio delle feste

Speciale Festività

Quartiere Tamburi (Taranto) pettolata sociale la notte di Santa Cecilia (foto Carmine La Fratta)

Santa Cecilia già si respirava aria di Natale e qualcuno cominciava a progettare il presepe. Credo sia ancora così. Mio nonno mi promise più volte di portarmi alla processione - avevo una decina d’anni - ma era insidiato dalla bronchite, quindi gli capitava di dover stare al letto. Che desiderio vedere e ascoltare le bande, che all’alba uscivano dai vari rioni e si riunivano in un punto della città per la benedizione.

Oggi la processione della Santa, protettrice dei musicisti e della musica, attraversa le vie Garibaldi, Sant’Egidio, via Di Mezzo, pendio la Riccia, piazza Castello, via Duomo e oltre. Nel pomeriggio si celebra la messa nella Cattedrale di San Cataldo e una folla vi si addensa per devozione.

Non so se il percorso di questi giorni sia lo stesso di quello dei tempi della mia adolescenza.
So che la notte stavo sveglio parecchio, pensando a quella festa che precedeva quella della nascita del Bambinello e apriva le feste nella Bimare, fra il profumo e il richiamo delle “pèttele” (frittelle), che si rifanno a San Cataldo, giorno in cui si torna a suonare la cornamusa.

Alle 17,30 oggi come ieri, inizia la processione, accompagnata dalle bande che inondano la città di arie sacre, sostando in via D’Aquino con i marciapiedi gremiti.

Dopo i soffi nella pelle delle cornamuse, che venivano dalla Basilicata le pastorali. Queste andavano, e forse vanno, via per via, si fermavano, davanti ai palazzi e la gente lanciava dai balconi le monetine. Era da poco passata la guerra e non si poteva scialare.

Quindi il bimbo generoso che da giù sollecitava la mana ad allargare l’offerta a una lire non potette essere accolta.
La festa era attesa con ansia.

Io e i miei cugini stimolavamo la nonna a mettere in padella anche le “sannacchiùtere”, spalmate di miele e anesine, stelline su quella delizia che non poteva mancare, ma lei ci aveva già pensato anche se mostrava di essere stanca di sfornellare. Anche per questo Santa Cecilia ci prendeva, inculcandoci gioia e serenità.

La prima pettola la nonna la collocava sotto la statuetta del Bambinello, la seconda io la portavo al nonno e assieme a lui mangiavo la mia. Ricordo ancora l’espressione di ”mbà’ Cicce”, come gli amici chiamavano il vecchio muratore, cioè il mio amato omonimo, per il quale mi batteva i cuore.
Tutte le case erano coinvolte in questa atmosfera.

Era una ricorrenza importante anche per quelli che non erano credenti.

Un giorno il nonno, rientrando da piazza Marconi, dove andava per curiosità, in via Dante all’angolo con la Leonida incontrò un “clochard” con la mano tesa. Si avvicino e gli disse: “Vieni a casa mia e passiamo la festa insieme”. Quello rifiutò e allora gli dette quel poco che aveva e quello che aveva appena acquistato. Poi si tolse il cappello e glielo dette, dicendogli: “Tienilo, hai più freddo di me”.

Mio nonno era buono, fedele al detto biblico “Quod super est date pauperibus” ma non perché ispirato dall’aria che circolava in quel giorno.
Lo ammiravo, era il mio mito: e io il suo nipote prediletto, perchè porto il suo nome ed ero il figlio del suo unico figlio maschio.

Ma questa è un’altra storia.

Un viaggio nei ricordi di un Natale che nasceva presto, tra bande all’alba, pettole fumanti, cornamuse lucane e gesti di autentica solidarietà. Scene di vita familiare e tradizioni popolari che, tra Taranto e Milano, continuano a custodire l’anima più profonda della festa (foto Carmine La Fratta)

Santa Cecilia si celebra il 22 novembre e apre come detto il sipario su una serie di feste, Natale e Capodanno. Epifania compresa. Nonostante siano passati tantissimi anni, già tempo prima che arrivi quella data fluiscono in me i ricordi: le cene con al centro del tavolo le pettole, ognuna delle quali aveva una forma diversa; e un altro piatto colmo di sannacchiùtere, altra delizia che allettava e alletta anche oggi il palato.
Anche qui a Milano coliamo la pastella nell’olio bollente. Ma l’operazione non crea il clima che si viveva nell’occasione una volta a Taranto.

Eravamo entusiasti e cantavamo “Tu scendi dalle stelle” con tutto il fiato che avevamo in gola, mentre mio zio Dionigi suonava la chitarra. Intonava anche alla bell’e meglio qualche altro canto sacro,

La sera della vigilia la nonna tirava fuori dal cassetto del comò la statuetta di Gesù Bambino e tutti in processione ci fermavamo davanti al presepe, assistendo alla deposizione nella grotta. E esplodeva “Tu scendi dalle stelle”.
Ho nostalgia di quei cori e di quella festa, che riuniva la famiglia e ci metteva in attesa di un’altra solennità: il Natale.

Pochi giorni dopo Santa Cecilia mio padre si procurava il materiale e cominciava a pensare ala scenografia presepiale. Voleva fare bella figura e la schizzava prima su un foglio di carta. Il risultato era affascinante, con rispetto della prospettiva e tanta luce distribuita fra grotte e sentieri, grazie alle lampadine normali nascoste tra rami di pino.
Una mia conoscente, che nel capoluogo lombardo ha un negozio di statue di ogni dimensione e di architetture natalizie, mi dice che qui sono in tanti a fare il presepe, ma non mi sa dire se Santa Cecilia abbia una tradizione. In prossimità del Natale arrivano gli zampognari nelle strade, nei cortili, nei mercati, negli oratori. Li ho incontrati anche sulla porta del Centro dell’Incisione del grande acquafortista Gigi Pedroli sul Naviglio Grande, e in viale Suzzani fuori del cancello della chiesa.

Nel cortile dell’oratorio un uomo, con addosso un barracano, aveva portato un asinello. “Non ho il bue, purtroppo”. “Ma anche questo è un simbolo”.
Devo esplorare a fondo il mio scrigno per trovare particolari di quei tempi.

Ricordo una signora molto anziana che scese dal secondo piano a piedi, al freddo, per donare un piattino con le pettole ai suonatori di cornamusa. E il bambino seduto sullo scalino dell’androne che chiedeva ai suonatori di ripetere la canzone ideata a suo tempo (forse 300 anni fa) nel convento della Consolazione da Sant’Alfonso de’ Liguori, “Tu scendi dalle stelle”, che ci riempiva di allegria.
Piccoli ricordi di una festa fatta di un trinomio: tradizioni, suoni e religiosità.

Una ricorrenza piena di fervore, che dava e dà forza allo spirito.

Il godimento stava e sta nell’attesa. Una festa che rimanda alle abitudini della vita pastorale, quando i pecorai scendevano a Taranto con le bestie, tra l’altro correndo i rischi delle incursioni dei briganti, usi ad impossessarsi del latte e dei formaggi.

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