Ibrahim Raisi, all’Assemblea Generale dell’Onu a New York, non ha menzionato le manifestazioni in cui le donne iraniane chiedono l’abolizione della polizia morale dopo l’assassinio di Mahsa Amini. Intransigente esponente dei conservatori, fin dalla sua ascesa al potere, ha ulteriormente ristretto il margine di dissenso nel paese, imponendo regole ancor più severe sull’abbigliamento femminile che includono l’introduzione di telecamere di sorveglianza e multare chiunque violi le regole sul velo. Ancora una volta il regime iraniano si trova a confrontarsi con la rabbia e la frustrazione dei cittadini e delle donne in particolare. Nel 2009 le proteste innescate dall’uccisione di Neda Agha Soltan, studentessa 26enne, colpita al petto da un proiettile mentre manifestava, arrivarono a scuotere la Repubblica islamica fino alle fondamenta. Dieci anni dopo, gli iraniani sono tornati in piazza per protestare contro il carovita, repressi con la forza. Da allora le autorità hanno investito su alcuni tra i più pervasivi sistemi di controllo e sicurezza digitale della regione, costringendo al silenzio ogni forma di dissidenza. La morte della studentessa Mahsa Amini, mentre era sotto custodia della polizia morale di Teheran, ha risvegliato un’insoddisfazione che covava sotto la cenere, scuotendo la Repubblica islamica. Nonostante Teheran abbia spento internet e i social per sgonfiare la protesta, la stessa ha varcato i confini grazie ai numerosi video in cui, le donne bruciano il loro hijab o, per protesta, se lo levano dal capo. MahsaAmini continua ad essere uno degli hashtag più visualizzati sui social network. Secondo le ricostruzioni la ragazza sarebbe stata arrestata lo scorso 13 settembre perché non indossava correttamente il velo. Portata in una caserma della Gasht-e Ershad, cioè la polizia ‘per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio’, ne è uscita incosciente ed è morta dopo tre giorni di coma in ospedale. Gli agenti negano di averla picchiata e torturata. La versione del capo della polizia che ha parlato di “sfortunato incidente” causato da “problemi fisici preesistenti”, non convince e ormai da diversi giorni le manifestazioni si diffondono a macchia d’olio nel paese: epicentro è il Kurdistan iraniano, la provincia natale di Amini, ma negli ultimi giorni raduni con slogan contro la Repubblica islamica e la Guida Suprema, Ali Khamenei, si sono estesi anche alle università di Teheran, Tabriz e Yazd e in città come Isfahan. Le autorità hanno reagito con il pugno di ferro e finora, secondo la tv di stato, almeno 17 persone sarebbero morte in scontri con le forze dell’ordine. La rete è diventata il canale privilegiato su cui circolano notizie e si organizzano le proteste che ricordano il momento in cui a Berlino le persone incominciarono a demolire il muro. Per la prima volta le donne che protestano non sono sole. Ci sono tanti uomini accanto a loro. La crisi economica, la pandemia e soprattutto la guerra voluta da Putin in Ucraina, hanno indotto l’Europa e Stati Uniti a distrarsi dalle proteste in corso in Iran. La reazione delle capitali occidentali si è limitata alla minaccia di nuove sanzioni contro Teheran, mentre procedevano i negoziati per un accordo sul nucleare. Le proteste, nate attorno ad una questione femminile come l’obbligo di velarsi, potrebbero fare da catalizzatore per un’azione politica più ampia e trasversale. Potrebbe essere il momento in cui le persone motivate da tutti i problemi che l’Iran deve affrontare oggi, come l’aumento dell’inflazione, la crisi ecologica e la mancanza di partecipazione democratica, si uniscano attorno alle donne per sfidare il regime rendendole voce e avanguardia della necessità di cambiamento”. Stavolta, se la repressione diverrà più brutale, potrebbe rendere più incendiaria la situazione. “Il motivo per cui le generazioni più giovani corrono il rischio di manifestare è perché sentono di non avere nulla da perdere. E’ perché non hanno più alcuna speranza per il futuro.
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