Cerca

Cerca

l'avvocato

Stalking e diffamazione ai tempi dei social: la linea sottile del diritto penale dell’immagine

Il caso giudiziario di Elisabetta Franchi mette in luce i rischi legali dei gesti e dei contenuti online, tra provocazioni digitali e responsabilità penale

Il parere legale

Social network e comunicazioni digitali al centro delle riflessioni su stalking e diffamazione online

La recente vicenda giudiziaria che coinvolge la stilista Elisabetta Franchi, imputata a Bologna per atti persecutori e diffamazione aggravata, offre l’occasione per riflettere su un tema ormai centrale nella giustizia penale contemporanea: la trasformazione del comportamento umano in rete in condotta giuridicamente rilevante.

Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, il pubblico ministero Luca Venturi ha confermato le imputazioni a carico della stilista, aggiungendo alla contestazione di stalking anche quella di diffamazione aggravata. Le condotte, a quanto emerge, sarebbero riconducibili a una serie di iniziative e comunicazioni volte a screditare un’ex consulente, con cui Franchi aveva avuto in passato un rapporto anche personale. L’episodio più recente - una storia Instagram del 22 ottobre, in cui la stilista, celebrando una presunta “vittoria” giudiziaria, mostrava il dito medio accompagnato da frasi trionfalistiche - è stato ora incluso dal PM come ulteriore elemento di accusa.

Il dato più interessante di questa vicenda non è tanto il profilo mediatico, quanto la tenuta giuridica delle categorie tradizionali di fronte a un linguaggio che si esprime ormai in simboli, immagini e reazioni istantanee. I social network, nella prassi quotidiana, rappresentano una forma di comunicazione globale e incontrollata, ma nel diritto penale diventano uno spazio dove ogni gesto può assumere valenza probatoria, se idoneo a ledere la reputazione o a incidere sulla sfera emotiva altrui.

Sul piano normativo, il reato di stalking (art. 612-bis c.p.) è un delitto abituale che si fonda sulla reiterazione di condotte moleste o minacciose, anche indirette. La molestia può realizzarsi con qualunque mezzo, inclusa la pubblicazione seriale di contenuti offensivi o provocatori sui social, purché idonei a generare nella vittima un perdurante stato d’ansia o di paura. Non è necessario il contatto diretto: è sufficiente la percezione di essere oggetto di una campagna ostile e costante.

Parallelamente, la diffamazione aggravata (art. 595 co. 3 c.p.) trova nei social la sua espressione più frequente. La pubblicazione di un post o di una “storia” su piattaforme come Instagram o Facebook integra l’aggravante del mezzo di pubblicità, poiché il messaggio è potenzialmente destinato a un numero indeterminato di utenti. Anche un contenuto visibile per sole ventiquattro ore può costituire offesa pubblica, se idoneo a raggiungere una platea ampia o indifferenziata.

È qui che si innesta la questione interpretativa: quando un gesto simbolico, ironico o autocelebrativo, diventa reato? Il diritto penale dell’immagine - espressione che sintetizza la tutela dell’onore e della reputazione nell’era digitale - impone un equilibrio delicato fra libertà di espressione e tutela della dignità individuale.
Un messaggio pubblicato in un contesto di tensione giudiziaria, come nel caso Franchi, può essere percepito come un atto di provocazione o di dileggio verso chi ha denunciato, e dunque assumere rilievo persecutorio. Ma la soglia di punibilità resta affidata alla valutazione concreta del giudice, che dovrà accertare l’effettiva idoneità della condotta a generare un pregiudizio psicologico nella vittima.

Dal punto di vista processuale, la decisione del GUP di invitare il PM a riformulare il capo d’imputazione mostra una fisiologica esigenza di precisione accusatoria: il giudice dell’udienza preliminare non entra nel merito, ma verifica la chiarezza e la coerenza delle imputazioni. Il fatto che il PM non solo abbia confermato, ma ampliato i capi di accusa, segnala invece una chiara volontà di rafforzare la prospettiva del rinvio a giudizio, valorizzando anche i comportamenti successivi alla prima contestazione come indice di continuità persecutoria.

Il fenomeno, d’altra parte, non è isolato. I tribunali italiani si confrontano sempre più spesso con atti di cyber-stalking e cyber-diffamazione, nei quali l’offesa o la molestia non si esauriscono nel messaggio in sé, ma nel contesto reiterato e simbolico che la rete amplifica.
L’immediatezza e la viralità dei social rendono ogni parola o immagine una potenziale “arma reputazionale”: il gesto di scherno, la battuta velata, il riferimento ironico diventano, per il diritto, comunicazioni dotate di una forza offensiva autonoma.

Sarà ora compito del giudice valutare se, nel caso specifico, quelle condotte abbiano davvero superato la soglia della mera intemperanza verbale, traducendosi in un disegno persecutorio o diffamatorio. Resta tuttavia il dato culturale: il confine tra libertà e responsabilità, nell’ecosistema digitale, è sempre più sottile, e il diritto penale è chiamato a inseguire un linguaggio fatto di immagini e simboli che non conosce più filtri.

In questo scenario, la funzione del giurista è duplice: da un lato ricondurre la materia alla legalità sostanziale, impedendo derive moralistiche o censorie; dall’altro, riaffermare che anche nel mondo virtuale vale il principio - antico ma sempre attuale - secondo cui la libertà di espressione finisce dove comincia la dignità dell’altro.

e-mail: avv.mimmolardiello@gmail.com  
sito: www.studiolegalelardiello.it

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Buonasera24

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Termini e condizioni

Termini e condizioni

×
Privacy Policy

Privacy Policy

×
Logo Federazione Italiana Liberi Editori