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Tommaso Fiore, umanista e meridionalista illustre

Tommaso Fiore

Tommaso Fiore

Ricordo, a cinquant’anni dalla sua scomparsa, Tommaso Fiore (Altamura 1884 – Bari 1973), umanista di grandi meriti e meridionalista di grandi virtù sociali e politiche, giacchè fu un socialista di antica tempra, vicino a Guido D’Orso, a Giustino Fortunato e al suo maestro Giovanni Pascoli. Il mio primo incontro con Tommaso Fiore avvenne nel lontano 1950 mentre scendevo i gradini dell’ampia scala vasariana della Scuola Normale di Pisa; mi era accanto il mio maestro di Latino, Augusto Mancini, studioso di Virgilio, pascoliano come Manara Valgimigli. Fu un incontro con il suo nome, non con la sua persona che avvenne anni dopo al liceo classico Archita dove io ero docente avendo vinto il concorso per quella cattedra. Tommaso Fiore aveva studiato presso l’università di Pisa dove insegnava Giovanni Pascoli, suo maestro di Grammatica latina e greca. Lo ricorderà in un breve saggio apparso in “Belfagor” (XI, 2 del 31 marzo 1956). La cattedra di Giovanni Pascoli nell’università di Pisa si chiamava di Grammatica latina e greca ma in realtà era di Letteratura latina. Ricorda Fiore che Pascoli sedeva ad un tavolo con attorno una diecina di ragazzi, vi leggeva lentamente marcando accenti e sospensioni, alzando poco gli occhi, che erano di un azzurro chiaro. Il mio maestro Augusto Mancini impose a me e ai miei compagni di studio di studiare il saggio di Tommaso Fiore su “La poesia di Virgilio” e ci raccomandò di meditare le pagine sulla pietas del grande poeta latino. “La poesia di Virgilio”, Bari 1930, fu un saggio pubblicato in pieno regime fascista. Fece scalpore perché coinvolgeva l’immagine imperialista che il regime aveva voluto offrire del grande poeta latino, mentre Fiore, tanto attraverso il mondo delle “Georgiche” e poi dell’ “Eneide”, poeta più della romanità nel senso della giustizia, della bontà e dell’amore fra gli uomini. Fiore non mancò nel suo volume, di mettere in evidenza proprio il carattere poetico della grande poesia virgiliana notando soprattutto il senso anche del dolore, anche di quel male che fa tanto male agli uomini del mondo. Di tanto Virgilio piangeva non essendoci ancora quel Dio provvidenza che poi Dante volle, proprio attraverso Virgilio, nella sua opera maggiore: la Commedia. Ma io ricorderò Fiore agli esami di maturità a Taranto che volli poi descrivere nel fascicolo della “Rassegna pugliese” 1967 interamente dedicato a Fiore per cura di Agostino Caiati. Scrivevo che alle 7 del mattino Fiore era già al liceo Archita ed era il primo ad attendere alunni e docenti e l’ultimo ad andar via sempre sereno e sorridente e qualche volta portava, per quel giovane che riteneva abbastanza preparato per un esame di Maturità di quel tempo, un garofano rosso che a lui offriva con un sorriso paterno. Ma il nome di Tommaso Fiore era già noto perché aveva vinto il Viareggio del 1952 per “Un popolo di formiche”; in quel libro il fiero socialista meridionalista aveva descritto un intero capitolo dedicato a Taranto, città che egli amò sempre e che volle, attraverso le tante lettere a me indirizzate successivamente, che crescesse in cultura e civiltà urbana sull’esempio dei suoi grandi antenati greci e romani. E l’amore per Taranto si manifestò anche in una lettera scritta nel 1953 “Taranto non vuol morire”. Oltre a “Un popolo di formiche” Fiore aveva scritto anche “Un cafone all’inferno”. Ma il suo sentimento sociale della vita lo portava ad essere un maestro di equità, di civiltà e, al tempo stesso, di grande umanità perché il socialismo in lui, più che un partito, era un ideale che voleva trasmettere soprattutto ai giovani perché dai giovani doveva risorgere un’Italia migliore e più democraticamente avvinta. E a volte pronunziava con il nome di Giustino Fortunato l’altro di Giacomo Matteotti ed era tutto ed era tanto! Volle, nel 1966, che la presentazione del mio primo volume edito da Lacaita di Manduria su Luigi Russo, mio maestro a Pisa, fosse la sua e fu una presentazione piena di fertile sentimento culturale e di profonda evidenza umana e sociale. Da quella prefazione uscì un Luigi Russo grande nella sua esperienza letteraria e grande come uomo di principi fortemente ed assolutamente democratici. Nel maggio del 1968 Fiore, che ormai era diventato un mio secondo maestro, mi inviò con lusinghiera dedica il suo libro “La realtà è Storia” pubblicato da L’Adriatica editrice Bari. Un’antologia tra le più belle e profonde pagine della critica attraverso il tempo e attraverso una controllata esegesi, scaturita da competenza e originalità di pensiero. Il tessuto narrativo è la Puglia che per Fiore aveva tanti lati da scoprire nel tempo e nei futuri avvenimenti: la Puglia di Pitagora, di Orazio, di Roma contro Pirro ma anche la Puglia di Leonida da Taranto e dei poeti Andronico ed Ennio e del musicologo Aristosseno. Ma era anche la Puglia del virgiliano amor della terra, la terra del vino e dell’olio, che sono i figli delle zolle e del cielo. Ed ogni passo riportato aveva un nome, un autore, uno storico del pensiero e del presente. Taranto nella Puglia, le sue origini risorgimentali, la Puglia di contadini e di briganti, la Puglia borbonica e finalmente quella sabauda, mazziniana, garibaldina e cavouriana che fece della Puglia e di Taranto una regione e una città italiane. Un libro che è al tempo stesso mise in luce uomini come Pagano, Canfora, Bernardini, Vallone, Pepe ed altri ancora. Questo è il maestro Tommaso Fiore: la sua opinione della realtà, e su tale linea gli veniva incontro Luigi Russo, diventava non la Storia, una semplice e trascurata pagina di cronaca a volte anche volgare; non la ciceroniana “Historia”. quella che Fiore amò sempre e cercò nei giovani che quella “Historia” ritornasse ad illuminare il cielo d’Italia. Il temperamento di Fiore quale politico, socialista ed antifascista, non mancò di essere anche un temperamento civile, legato ai doveri della vita (i latini “officia”) senza i quali non ci potrà essere risorgimento di vita etica né resurrezione di anime giovanili nel futuro corso degli eventi. Fiore, di cui doverosamente ricordiamo i cinquant’anni della sua scomparsa, lascia un grande monito a tutti noi: non esiste cultura senza lettura meditata dei classici nella scuola e fuori di essa. Non esiste partito senza essere degni degli ideali di un partito. Perché il suo nome e la sua opera, oggi come oggi, non rimangano come fiaccola sotto il moggio, ma risplendano come luce in questa nostra età convulsa, vuota di sentimenti alti ed umani, disordinata ove la realtà non solo non è Storia, ma non rimane, ripeto, “Historia”.  
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