Il Rinascimento è un periodo di transizione anche nella gastronomia. Qui lo splendore delle corti italiane raggiunge l’apice, anche se la loro importanza politica è declinante; non così quella artistica e culturale, in tutti i sensi. Compreso, va da sé, il senso del gusto. E’ una gastronomia sfarzosa, che si avvale di una cucina ricca, sempre più raffinata, complicata, elaborata, fino ad arrivare ad eccessi per noi spaventosi di spezie, fra le quali il primo posto spetta allo zucchero, che “impreziosisce” praticamente ogni piatto (anche se Messisbugo avverte che nel caso si cucini per un “gentil’huomo mezzano”, ovvero della piccola nobiltà, le dosi di zucchero e spezie possono essere ridotte ad un terzo: l’appartenente alla piccola nobiltà, insomma, non solo spendeva molto meno dei potenti, ma mangiava molto meglio di loro...). Resta in cucina la distinzione fra piatti di grasso e piatti di magro, ma nella cucina di magro si arriva ad elaborazioni che il nostro palato riterrebbe inaccettabili. E anche se la finalità prima di Virgole Golose, anche nelle sue ricerche storiche, è quella di offrire suggerimenti e ricette più o meno attualizzabili ma in qualche modo ancor oggi degustabili dai nostri lettori, ghiottoni erranti non solo nello spazio ma anche nel tempo, qualche ricetta che ci dia l’esempio dell’alterità dei gusti delle varie epoche va riportata. Come quella della Torta d’anguilla da Quaresima di Messisbugo. Che non è una torta rustica, come la definiremmo noi oggi, preparazione molto in voga nel Medio Evo e nel Rinascimento, per quanto magari caratterizzata da un tono dolce/ salato, ma un vero e proprio dolce, in cui la grassa carne dell’anguilla sostituisce creme o latticini... Si fanno appena imbianchire in acqua bollente spinaci ben lavati (Messisbugo fornisce le dosi delle spezie ma non quella degli spinaci); quindi si sgocciolano e si soffriggono in “olio buono”; poi si pestano nel mortaio una libbra di mandorle pelate e mezza libra d’uva passa senza semi, stemperando con brodo di pesce; si passa tutto al setaccio quindi si incorpora il tutto con gli spinaci, sei once di zucchero ed una cannella, un quarto d’oncia di pepe e quattro once di zibibbo tagliato per lungo (e senza semi). Poi si prepara una sfoglia e si pone “in una tiella unta con olio buono”, nella quale si pone il battuto di spinaci spezie ed uvetta. Si lessano quindi tre o quattro anguille spellate, si tagliano a pezzetti, diliscandole, e si mettono sugli spinaci; con altra sfoglia si prepara una copertura della torta, tagliandola a liste “a modo di gelosie”, ovvero delle persiane; quindi, dopo averla cosparsa di zucchero si cuoce in forno. Ben più appetitoso il Pastello di pesce, ripreso anche ed attualizzato da Sabban e Serventi in “A tavola nel Rinascimento” (Laterza), che riprendiamo con qualche modifica. Occorre una pasta frolla senza zucchero (a meno di non volerla appositamente preparare, si può ricorrere alla pasta sfoglia o alla pasta brisée già pronte), che racchiuderà salmone o trota o carpa o luccio, ben lavati, spellati, aperti e diliscati, spolverati di sale e poi di una miscela di spezie composta da pepe macinato, cannella in polvere, zenzero in polvere e un po’ di zafferano. Si fodera con la frolla una teglia e vi si adagia il pesce ricomposto, che poi si cosparge di finocchio tritato, poco burro e fettine di arance e limoni (Messisbugo usava le arance amare, le sole disponibili all’epoca; alternando arance e limoni possiamo ottenere un sapore simile...), si spruzza con un po’ di succo d’arancia e limone, si chiude l’involucro di pasta, realizzando incisioni nella parte superiore per consentire di far uscire l’umidità e si cuoce in forno preriscaldato a 225° per 45 minuti circa. E incredibilmente in questa ricetta non c’è zucchero... In Quaresima, al posto del burro si può usare l’olio. Lo zucchero torna, prepotente, nella Torta d’erbe alla Ferrarese o Romagnuola, che Marco Guarnaschelli Gotti, in appendice a “Cucina ferrarese” di Galluzzi, Iori e Iannotta (Franco Muzzio Editore), considera “ava rinascimentale del ben noto Scarpazzone”. Occorre una pasta sfoglia, o per essere più fedeli a Messisbugo, una frolla (con zucchero, questa volta) aromatizzata con un po’ di acqua di rose e un pizzico di zafferano. Per il ripieno si trita una mazzo di bieta ben lavata e lessata, impastando bene con quattro ricottine fresche, quattro bicchieri di latte, otto uova, una libbra di burro fresco (g 350 circa), abbondante pepe. Si fodera con la pasta una teglia e vi si pone il battuto di bieta; su questo, a fettine sottili, si pone mezza libbra (g 175 circa) di tomino fresco “ben grasso”. Quindi si richiude, sigillando bene, con altra sfoglia, si irrora con mezza libbra di burro fuso e si pone a cuocere in forno (anche qui, incisioni a mo’ di sfiatatoio sono utili). Quando sarà quasi cotta, “le porrai sopra once 4 di zucchero, poi finirai di cuocere, in modo da caramellare la crosta della torta (l’oncia corrisponde grosso modo a 30 grammi).
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