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LA RECENSIONE
27 Ottobre 2025 - 14:26
Il poeta, Dario Villa
Capita non di rado di imbattersi in giudizi assolutistici, anche autorevoli, per l’entusiasmo suscitato da un autore: il giovane più promettente, il poeta più rappresentativo, l’autrice più apprezzata all’estero. È l’effetto, certo sincero, di un entusiasmo immediato che si prova spesso in un momento di grazia e disponibilità. Ma quando si legge il giudizio che Patrizia Valduga scrisse sulle pagine del “Corriere della sera”, in occasione della sua prematura scomparsa di Dario Villa, avvenuta nel 1996, si resta sinceramente colpiti, sebbene il giudizio abbia un inquadramento storico preciso, e sia espresso in un momento di reale commozione.

La copertina del libro
“Per giustizia, si riscriva la storia di quest’ultimo decennio, si ridistribuiscano glorie, premi e apprezzamenti, e dalla folla dove tanti fasulli e stonati si vorrebbero poeti a dispetto degli uomini, degli dèi e dei chioschi di librai (e ingombrano le gazzette e persino gli schermi) si estraggano i veri poeti, e tra questi Villa sia riconosciuto il migliore, subito”.
Meno schietto il giudizio di Raboni, che lo definì “il migliore, il più veridico seguace di se stesso”, giudizio che può apparire persino ambiguo se non aprisse lo spazio a segnalare l’unicità assoluta della sua produzione.
Stiamo parlando naturalmente di Dario Villa, tumultuoso e al contempo schivo poeta, che nei suoi “soli” 43 anni di vita lasciò un segno portentoso nella poesia di fine millennio, finendo ben presto fuori fuoco. Ci prova adesso l’editore Crocetti a rimetterlo al suo posto raccogliendo nell’”Opera in versi”, per la collana Kylix, tutte alle sue poesie, apparse, in realtà, quasi tutte in plaquette pubblicate spesso all’estero, dove egli era protesto anche e soprattutto come traduttore, anche in questo caso: molto particolare.
La breve ma efficace prefazione di Alessandro Giammei descrive Villa come lucido testimone di un tempo alla deriva, che contrassegna con lucida ironia, setacciata da un profondo dolore mai apertamente professato, la sua epoca, che lo portava a dire: “per due o tre bioccoli di pube biondo / avrei dato la vita erano tempi / allegri gli anni di piombo non c’erano / molti indirizzi nel mio repertorio / e non c’erano nomi cancellati / la solita giornata appesa la chiodo / dei desideri appesi al chiodo aveva / traversato il decennio e sviluppato / un tremito sicuro la speranza / di vederne la fine era ingiallita / nel muro come una stagione cronica / mancava sempre un giorno all’altro mondo...” (“a nomeless hardness”, da Venere strapazzata dai lunatici).
Inclassificabile, non inquadrabile in scuole o ismi, rivolto per una certa parte se stesso il suo percorso, alla normalizzazione del paradosso (fino al surrealismo), al recupero della metrica, ma quasi come professione di disobbedienza civile.
Inutile anche cercare assonanze che, pur essendoci, non risolvono la sua inclassificabilità. Se versi come “Le lame, i limi, i limiti e poi i lumi...”, ci fanno pensare ad Angelo Maria Ripellino, altro grande irregolare, con la sua La fortezza di Alvernia (“...Truncioli truci di tralci intrecciano croci...”) e le composizioni di un improvviso barocchismo ermetico fanno pensare al più coetaneo Alessandro Ceni, i recuperi elegiaci, gli endecasillabi che si inframezzano con prepotente bellezza, disconoscono ogni accostamento. Che si potrebbe azzardare con gli altri poeti milanesi, soprattutto nelle composizioni che parlano di Milano, dove però la sua vena vagamente sarcastica crea la distanza: “la notte sbava per milano, / le sfila l’abito grigio, / la veste da cortigiana, / si fotte i marciapiedi sotto l’occhio / lubrico dei cantoni...”.
Un accorato quanto sincero appello alla demistificazione il suo, per quanto operato da un poeta tutto immerso in una ricerca di senso che è un assioma e un cruccio irrisolti. Proprio nella irrisolvibilità, a volte disperante spesso consapevole, è lo svolgimento di questa storia poetica, singolare, ma non più di altre, consapevole come poche altre.
Come si osserva in affermazioni come questa: “quanto più la poesia è poesia tanto meno somiglia all’ingombrante pretesto che l’ha suscitata”. Un paradosso, può sembrare, che prende altro corpo dalle parole ancora prese dal suo “autoritratto” pubblicato da “Poesia” nel dicembre 1988, dove scrive: “... se poi davvero acconsentissi a fingermi in cornice, non potrei che dipingere un autoritratto con paesaggio – laddove il paesaggio sarebbe, come minimo, l’universo, riprodotto con fedeltà esasperante, sintomi e sindromi, sintesi e sintassi, sintonia e dissonanza e, come no, distuono. Ferma la mano, dario, o incombi nel superbo peccato scientistico dell’incontinenza tassonomica”.
Dove l’universo cui egli pensa non ha certo una dimensione astronomica ma esistenziale, con le contraddizioni interne al suo sentire di poeta e all’estensione che nel suo sentire combina la realtà. Affascinante contraddizione di cui egli può fare e disfare a piacimento, tanto da imporsi egli stesso di frenare.
Silvano Trevisani
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