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Virgole Golose

L’ultimo hurrà della gastronomia italiana

La celebre “Opera” di Bartolomeo Scappi

Rinascimento in cucina

Rinascimento in cucina

Per motivi anche, ma non solo, politici e geopolitici, l’Italia perde dopo un protratto Rinascimento, nel Seicento, il suo universalmente riconosciuto primato culinario e gastronomico, in favore della nuova potenza egemone sullo scacchiere europeo (e mondiale): la Francia di Richelieu e Mazzarino, di Luigi XIII e Luigi XIV.

L’accentramento politico e culturale a Parigi rende lo splendore della corte di Francia imparagonabile con quello, declinante anche politicamente ed economicamente, delle corti italiane, che pure fino ad allora avevano espresso quanto di più raffinato e magnifico, anche culturalmente, architettonicamente e gastronomicamente, si fosse mai visto. Ma se l’Italia cede ormai lo scettro gastronomico alla Francia lo fa con un ultimo hurrà anche sul piano della trattatistica. Nel Cinquecento esce il trattato definitivo, l’autentica Summa della gastronomia: l’ ”Opera” di Bartolomeo Scappi, “cuoco segreto” (ovvero personale) di Pio V. L’Opera viene impressa per la prima volta nel 1570 in Venezia, illustrata da 27 famosissime tavole, ovunque riprodotte, che documentano l’optimum di cucine e attrezzature di cucina del ‘500, da un famoso stampatore, Michele Tramezzino, nome che oggi simpaticamente richiama la gastronomia (ma il termine è di recentissimo conio).

Scappi era già morto da un paio d’anni, ma il libro ottenne una enorme fortuna, anche editoriale: tradotto, ristampato e soprattutto saccheggiato. Nel 1560 esce un altro trattato che ha per scena la curia romana: è “La Singolare dottrina” di Domenico Romoli, detto il Panonto (poi con più usuale grafìa Panunto). Di poco precedente, stampato in Ferrara, altra splendida corte italiana, nel 1549, un anno dopo la morte dell’autore, “Banchetti, compositioni di vivande et apparecchio generale”, di Cristoforo Messisbugo, o Messi Sbugo, Provveditore ducale della corte estense, creato per i suoi meriti conte palatino dall’imperatore Carlo V. Non cuoco, Messisbugo compone un trattato che va ben oltre la cucina, e lascerà, come Scappi, una indelebile orma sull’apparecchio generale dei banchetti. Non di ricette, ma del modo scenografico ed artistico di trinciare al momento le carni ed ogni tipo di vivanda si occupa poi “Il trinciante” di Vincenzo Cervio (1581).

Ma il ‘500 è anche il secolo in cui l’Italia detta legge sul comportamento da tenere, a tavola e fuori: è il secolo del “Galateo” di monsignor Della Casa (1558), che designerà d’allora in poi ogni libro di buone maniere, e addirittura il complesso delle norme di buona educazione. E’ il secolo del “Cortegiano” (prima edizione a stampa 1528) di Baldesar Castiglione, che ammaestra sullo stare al mondo, nella corte, rispettando la cortesia. E’ il secolo nel quale Machiavelli compila, fra il 1513 ed il 14, “Il Principe”, edito postumo nel 1532 ma che circolava già manoscritto lui vivente, e che è considerato il fondamento della moderna Scienza politica. L’ago della bilancia, Lorenzo il Magnifico, è scomparso sul finire del Quattrocento, l’Italia è ormai terra di conquista, ma il Cinquecento è ancora un secolo di splendore; e i suoi bagliori illuminano anche, ma sono ormai luci crepuscolari, il Seicento. Che nella trattatistica gastronomica è il secolo di Bartolomeo Stefani (e nella Scienza politica vedrà la teorizzazione, ispirata ma su scala minore e molto “teatrale” al Machiavelli, di un altro italiano, che come scrittore e politologo vale molto meno del segretario della Repubblica fiorentina, ma che nella politica applicata, a differenza del fiorentino, è un gigante: Giulio Raimondo Mazzarino, primo ministro di Francia con Luigi XIII e Luigi XIV, autore del “Breviario dei politici”, edito postumo nel 1684), al servizio dei Gonzaga nella corte di Mantova, dove viene stampato nel 1662 il suo trattato “L’arte di ben cucinare”, ispirato, con un po’ di complicazione barocca, alla gastronomia cinquecentesca, con un sovrappiù (specie quando descrive i banchetti da lui curati, come quello per Cristina di Svezia) di scenografie e coreografie conviviali.

Ma la gastronomia italiana, a questo punto, è il passato. Grazie anche agli influssi civilizzatori di due regine di Francia, Maria e Caterina de’ Medici, col Seicento inizia a dettar legge, in cucina ed a tavola, Parigi. Nel 1651 va in stampa l’evangelo della nouvelle cuisine dell’epoca, testo fondante della cucina che potremmo definire “moderna”: “Le Cuisinier françois”, variamente tradotto come “Il cuciniere francioso” (per conservare una patina arcaica), “Il cuoco Francesco” o, più generalmente, “Il cuoco francese”. L’autore, François Pierre de La Varenne, cuoco al servizio del marchese d’Uxelles ma nelle grazie di Luigi XIV, che gli affida anche missioni di diplomazia parallela, rivoluziona l’impianto culinario, in piena aderenza con la volontà di potenza della corte francese ma alla luce di quel cartesiano esprit de clarté, spirito di chiarezza, che è l’opposto del barocco italiano. Sta nascendo una cucina di “cose chiare e distinte”.

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