TARANTO - «Tu mi devi scrivere quello che devo dire… poi io studio. Faccio tutto quello che vuoi tu». In questa frase, intercettata dagli investigatori, c’è il cuore più inquietante dell’operazione Argan. Non è solo il racconto di una minaccia, ma la fotografia di un sistema che mira a controllare il processo prima ancora che inizi, svuotandolo dall’interno e trasformando vittime e testimoni in comparse silenziose.
Secondo quanto ricostruito dai Carabinieri del Nucleo Investigativo e dalle Procure di Lecce e Taranto, l’episodio si colloca in una fase cruciale di un procedimento penale che vedeva come imputato il 54enne ritenuto al vertice del gruppo criminale, già arrestato nel novembre 2023 per una vicenda estorsiva. L’obiettivo non era soltanto evitare condanne, ma impedire alle vittime di presentarsi in aula con la forza della parte civile, privandole di voce e di dignità processuale.
L’imprenditore che aveva denunciato le pressioni subite, e che avrebbe dovuto costituirsi parte civile, sarebbe stato avvicinato e intimidito prima dell’avvio del dibattimento. Le minacce, dirette e indirette, avevano un messaggio chiaro: non andare fino in fondo, non chiedere giustizia, non esporsi. Un condizionamento che, secondo gli inquirenti, puntava a ottenere un assoggettamento totale, capace di andare oltre il singolo procedimento.
La pressione non si sarebbe fermata alla vittima principale. Dalle intercettazioni emerge che anche i testimoni sarebbero stati coinvolti in questo meccanismo di intimidazione. Uno di loro, visibilmente spaventato, avrebbe rinunciato a ogni residua autonomia, arrivando a chiedere allo stesso indagato di indicargli parola per parola cosa dichiarare davanti ai giudici. Una resa senza condizioni che racconta meglio di qualsiasi analisi lo stato di paura che circondava il gruppo.
Per gli investigatori, questo episodio rappresenta uno degli elementi più gravi dell’intera indagine. Non si tratta di un gesto isolato, ma di una strategia precisa di intralcio alla giustizia, messa in atto per neutralizzare gli effetti del processo penale. La rinuncia alla costituzione di parte civile non è solo un atto formale: significa rinunciare a chiedere verità, risarcimento, riconoscimento pubblico del torto subito.
In questo contesto, assume un peso ancora maggiore la figura del 54enne, che, nonostante la detenzione prima in carcere e poi agli arresti domiciliari, avrebbe continuato a esercitare il proprio ruolo di comando. Le indagini descrivono un uomo capace di impartire direttive, mantenere contatti e orientare comportamenti, anche a distanza, alimentando un clima di timore che rendeva superflua la violenza esplicita.
Il silenzio delle vittime diventa così parte integrante del sistema criminale. Lo dimostrano altri episodi emersi nell’inchiesta, come quello dell’imprenditore che, dopo l’incendio della propria auto, avrebbe parlato ai Vigili del Fuoco di un improbabile guasto meccanico. Un gesto che racconta la stessa storia: meglio mentire che esporsi, meglio subire che rischiare conseguenze peggiori.
L’intralcio alla giustizia contestato nell’operazione Argan non è quindi un reato accessorio, ma uno snodo centrale. Colpire chi denuncia, piegare chi testimonia, scoraggiare chi potrebbe costituirsi parte civile significa tentare di rendere inutile l’azione dello Stato, trasformando il processo in una formalità svuotata di contenuto.
Ora sarà il dibattimento a stabilire responsabilità e ruoli, nel rispetto del contraddittorio. Ma quelle parole intercettate restano come un marchio: la prova di quanto profonda possa essere la paura quando la criminalità organizzata non si limita a chiedere denaro, ma pretende obbedienza anche davanti alla giustizia.
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