TARANTO - L'ex Ilva di Taranto è immersa in un vortice di crisi multifattoriale, un intreccio critico che coinvolge ambiente, salute pubblica, occupazione e sostenibilità economica. A tale complessità si è recentemente aggiunta una nuova e preoccupante dimensione, il rischio di finanziarizzazione dell'asset e il severo ridimensionamento produttivo imposto dalla sovrapproduzione globale di acciaio.
La sfida che si pone è triplice e complessa, cioè decarbonizzare l'impianto, garantire la continuità produttiva essenziale per l'industria manifatturiera nazionale e salvaguardare i livelli occupazionali, il tutto in un contesto di mercato difficile e con una cornice di governance aziendale profondamente incerta. Il timore principale espresso da sindacati e analisti industriali è che l'impianto di Taranto, vitale per l'intera filiera industriale italiana, si trasformi da un problema industriale e ambientale in un mero oggetto di interesse finanziario, slegato da qualunque visione strategica di lungo periodo.
Nelle fasi di rinegoziazione e ricerca di nuovi partner strategici, si è registrata l'emersione di fondi finanziari come possibili acquirenti o partner futuri in sostituzione dei global players industriali storicamente specializzati nel settore siderurgico. Questo scenario è tipico per asset in crisi che conservano, purtuttavia, un alto valore strategico. L'obiettivo primario di un fondo finanziario è tipicamente la massimizzazione del ritorno sull'investimento, da realizzarsi in un orizzonte temporale limitato. Questa logica, secondo gli esperti del settore, si traduce spesso in strategie che possono includere il taglio drastico dei costi, il downsizing produttivo o perfino il "carve out", la separazione degli asset, un'operazione che disgregherebbe la catena del valore e comprometterebbe l'essenziale capacità produttiva integrata.
La finanziarizzazione potrebbe non raccogliere l'esigenza più urgente dell'ex Ilva, ossia l'ineludibile decarbonizzazione. La transizione dal tradizionale ciclo integrale a carbone verso il ciclo verde, basato su forni elettrici e preridotto a gas naturale e poi a idrogeno, richiede impegni massivi di capitale, con stime di spesa nell'ordine dei miliardi di euro, come indicato dagli studi di settore e dai piani presentati, indispensabili per il rifacimento degli impianti. I ritorni economici di un simile investimento sono strutturalmente di lungo periodo e risultano pertanto incongruenti con la logica del Private Equity, focalizzata sul breve termine. Una gestione puramente finanziaria solleva, dunque, dubbi rilevanti sull'effettiva realizzazione della transizione ecologica e rischia di precludere l'accesso ai fondamentali finanziamenti europei collegati all'agenda del Green Deal. Sulla dimensione sociale del dilemma, il sociologo del Lavoro ed ex sindaco di Grottaglie, Raffaele Bagnardi, dichiara: "La cessione dell'Ilva a fondi finanziari non deve rappresentare alcun disimpegno politico e istituzionale. Altrimenti significherebbe subordinare il futuro produttivo e la salute del territorio non a una strategia di progresso e sviluppo, ma al mero calcolo di un guadagno a breve termine".
Il problema interno dell'ex Ilva è ulteriormente amplificato da una congiuntura macroeconomica siderurgica strutturalmente sfavorevole. Il mercato globale dell'acciaio è in costante e drammatico eccesso di offerta. La Cina copre oltre la metà della produzione mondiale e, pur attraversando una fase di rallentamento interno dei consumi, continua a produrre a pieno regime, riversando le eccedenze sul mercato internazionale a prezzi di dumping, spesso inferiori al costo di produzione dei competitor occidentali. Per un impianto a ciclo integrale come Taranto, gravato da elevati costi energetici e ambientali, competere con questi prezzi è economicamente impossibile. Secondo le analisi di mercato, la perdita stimata per tonnellata prodotta rende l'attività strutturalmente non profittevole per un impianto a ciclo integrale in questo contesto di prezzi internazionali, a meno di massicci interventi pubblici di politica industriale o sussidi mirati e autorizzati.
Di fronte a questa pressione competitiva, l'industria italiana si trova davanti a un severo dilemma. Il settore manifatturiero nazionale, che include automotive, rail e costruzioni, è il secondo più grande d'Europa e dipende in maniera determinante da forniture interne di acciaio di alta qualità, per non consegnarsi esclusivamente alle importazioni estere. Per evitare la chiusura definitiva, la soluzione di realpolitik consiste nell'accettare un ridimensionamento produttivo a livelli compatibili con la sostenibilità ambientale e con la domanda interna strategica, riducendo la capacità dagli 8.5 milioni di tonnellate storici a un obiettivo stimato tra 4 e 6 milioni di tonnellate. Ciò comporta il rischio politico-sociale sintetizzato dal timore sindacale che "metà produzione significhi inevitabilmente metà occupazione". In merito alla salvaguardia delle competenze, Bagnardi puntualizza: "Se il ridimensionamento dovesse essere gestito come mera riduzione di personale, l'Italia perderebbe per i decenni futuri sia i posti di lavoro sia il know-how siderurgico maturato. Questo è un patrimonio strategico da tutelare in vista della ripartenza verde."
La soluzione al complesso nodo Ilva richiede un intervento deciso e coordinato dello Stato. La crisi ha reso indispensabile una politica industriale capace di definire con chiarezza la governance. Molti analisti e sindacati spingono per una nazionalizzazione temporanea o per un controllo pubblico di maggioranza, attraverso un Golden Power rafforzato, per garantire l'esecuzione rigorosa del Piano Ambientale, l'avvio dei lavori di decarbonizzazione, la salvaguardia delle competenze e della filiera economica dell'acciaio nazionale. Lo Stato deve agire come catalizzatore di investimenti e garante della filiera produttiva, non limitarsi a un ruolo di semplice finanziatore.
Parallelamente, l'Italia e l'Europa devono proteggere le proprie industrie evitando l'importazione di acciaio prodotto con standard ambientali inferiori, una misura ritenuta necessaria da molti Paesi europei e veicolata dal CBAM, e promuovere il consumo di acciaio verde attraverso appalti pubblici e sgravi fiscali, così da creare un premium price capace di giustificare gli investimenti ecologici. In questo quadro si colloca la chiave di volta per il rilancio. Non è più possibile competere esclusivamente sui costi, ma sulla tecnologia e sulla sostenibilità. È fondamentale procedere senza indugio alla sostituzione degli altiforni con forni elettrici ad arco e impianti di preridotto. La transizione richiede un accesso massiccio e garantito a energia elettrica e, in prospettiva, a idrogeno verde a prezzi sostenibili, un ulteriore capitolo di politica energetica da affrontare con la stessa urgenza. Conclude Bagnardi: "La questione Ilva non è solo Taranto. È l'ultima vera prova per capire se la politica italiana ha la lungimiranza di investire in una siderurgia che non sia una replica novecentesca, bensì un pilastro della manifattura green europea."
La vicenda ex Ilva è, in ultima analisi, il test decisivo per la politica industriale italiana nel XXI secolo. Non si tratta più soltanto di salvare un'impresa, ma di decidere se l'Italia debba mantenere un ruolo primario nella siderurgia europea, transitando verso un modello produttivo green e sostenibile. Affrontare la finanziarizzazione attraverso il controllo pubblico della governance e contrastare la sovrapproduzione globale con innovazione tecnologica e difesa commerciale rappresentano le basi imprescindibili su cui poggiano le uniche possibilità di rilancio.
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