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SOCIO-CIVILE

Abisso

di Marcella Lombardo

Bovindo

Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.


Abisso

di Marcella Lombardo

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Era arrivata in Italia dalla Somalia insanguinata dalla guerra civile: la sua tribù era stata sconfitta e il destino dei perdenti era segnato: gli uomini sarebbero stati uccisi e le donne vendute come schiave. Il padre di Fadima e il fratello minore, gravemente ferito, erano fuggiti fortunosamente in Kenya, perché l’unico ospedale di Mogadiscio era stato distrutto. Il fratello maggiore, ufficiale della Marina somala, si trovava già in Italia per un corso di formazione. Grazie ai rapporti di amicizia tra l’ex colonia e l’ex “madrepatria”, i giovani ufficiali somali si addestravano nei cantieri navali di La Spezia. Scoppiata la guerra civile, il fratello di Fadima aveva scelto di rimanere in Italia. Spettava a lei il compito di organizzare la fuga per salvare il resto della famiglia: suo figlio e tre ragazze che chiamava “sorelle”.
Fadima aveva scelto l’Italia: ne conosceva le usanze, nella scuola delle suore missionarie aveva imparato a parlare e a leggere la lingua italiana, e poiché sapeva mantenere un segreto era l’amica preferita dalle ragazze italiane. L’Italia, dunque, non le era estranea, e appena arrivata a Bergamo – dove si era trasferito il fratello – Fadima trovò subito lavoro come domestica ad ore presso varie famiglie. Doveva mantenere suo figlio Alì e le “sorelle”, che spesso portava con sé affinché imparassero i mestieri di casa guardandola nella pratica quotidiana. Non era facile tenere in ordine una casa, tanto più che ormai non abitavano più sotto una tenda e non portavano al pascolo gli animali. Fadima ben presto capì che il lavoro era importante non solo per il guadagno, pur necessario, ma perché offriva una possibilità di riscatto. Doveva contare su se stessa: del marito, anche lui fuggito dalla Somalia, non aveva più notizie da tempo. Come capofamiglia – condizione inusuale per una donna somala – era responsabile delle sorelle, cioè delle altre mogli, più attratte dai telefonini e dai vestiti all’italiana che dall’impegno richiesto dal lavoro.
Spesso chiedeva consigli alla signora Mimma, presso cui lavorava, convinta che un’insegnante dovesse essere esperta in materia di comportamenti giovanili. Così si confidava con lei, preoccupata perché le sorelle, ore e ore davanti allo specchio, cominciavano a contestare il velo islamico. «Le ragazze di oggi non obbediscono più», si lamentava Fadima. «Stanno in giro tutto il giorno, amano poco la casa». «Anche le ragazze italiane sono così», la confortava Mimma, che a scuola vedeva situazioni peggiori. Fadima era puntuale, metodica, attenta: non le sfuggiva nulla, nemmeno le carte delle caramelle che il figlio di Mimma nascondeva sotto le poltrone. Lei le scovava tutte e poi gliele mostrava sorridendo. Faceva così anche con suo figlio Alì, che ormai doveva cominciare ad abituarsi al digiuno del Ramadan: niente acqua né cibo fino al tramonto, tantomeno merendine o caramelle. Da tempo Fadima aveva notato che, tra marzo e aprile, la casa di Mimma era oggetto di pulizie radicali e sul tavolo comparivano tanti rametti d’ulivo con le foglie dorate. Mimma le spiegò che voleva regalarli con un biglietto d’auguri dopo la benedizione. «Voglio anch’io un ramo benedetto. La pace è anche per me» disse Fadima, quando Mimma osservò che per lei, musulmana, il rito delle Palme non aveva senso e che non poteva partecipare. «È vero, non posso andare» replicò Fadima, «ma tu lo prendi per me». E Fadima portò a casa il ramo d’ulivo, un pegno di pace per la Somalia, dove desiderava tornare.
Fu attratta poi dalle confezioni colorate che avvolgevano grandi uova disposte in una cesta e, quando le fu spiegato che le uova di cioccolato nascondevano la “sorpresa” per i bambini, decise che anche il suo Alì doveva averne una. «L’uovo di cioccolato significa vita, rinascita, e si regala a Pasqua», spiegava Mimma, che non si aspettava la risposta di Fadima: «Certo, il Corano non ne parla, ma non vieta al mio Alì di mangiare cioccolato o di ricevere un regalo da te». Alì ebbe l’uovo pasquale e fu felice quando scoprì la “sorpresa”: un modellino della Ferrari che aveva tanto desiderato. Da alcuni giorni, tuttavia, Mimma si era accorta che Fadima era affaticata: talvolta camminava a stento, quasi piegata. «Vieni quando starai meglio» le diceva, ma Fadima rispondeva sempre: «Donna islamica deve soffrire». Pian piano venne fuori la verità.
Il marito di Fadima, arrivato dal Qatar dove si era rifugiato, aveva ripreso il solito ménage sessuale. Lei, che da bambina era stata infibulata, aveva ormai quarant’anni e il suo corpo rispondeva alle avances con fitte lancinanti. Mimma la convinse che quel ritornino consolatorio non le era d’aiuto: occorreva consultare un medico e le promise che sarebbero andate insieme. Durante quell’anno di cure tra le due donne nacque un rapporto di profonda complicità. Quando Fadima, ormai guarita, diede alla luce una bimba, la solidarietà tra madri fu più che un sentimento: un fatto naturale.
Dopo qualche anno, all’improvviso, l’11 settembre deflagrò anche in quella città che, chiusa tra le sue mura, sembrava senza tempo. Fadima non si presentò più al lavoro. Mimma le provò tutte, ma il numero di telefono risultava inesistente. In Questura e in Comune nessuno poteva darle notizie certe: bisognava rispettare la privacy, era la risposta che troncava ogni domanda. Fadima e i suoi figli si erano volatilizzati. Poi, nel cuore di Mimma, la verità balenò spietata: dopo quella strage nulla poteva essere come prima. Fadima aveva capito che tra le due donne ci sarebbe stata sempre un’ombra, spessa come un muro, e aveva troncato ogni rapporto.
A Ground Zero è stato scavato un abisso.

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