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FILOSOFICO

Il silenzio che segue il canto

di Nicola Sguera

Bovindo

Bovindo – racconti da leggere, autori da scoprire è la rubrica dedicata a chi desidera far conoscere la propria voce letteraria e condividere il piacere del racconto breve.
Ogni giorno, dal lunedì al venerdì, Bovindo propone un nuovo racconto, scelto tra autori esordienti e scrittori già affermati, offrendo ai lettori uno sguardo privilegiato sulla narrativa italiana contemporanea: una finestra luminosa da cui osservare il mondo attraverso tante piccole grandi storie.
Gli autori interessati possono inviare all’indirizzo bovindo2025@gmail.com il proprio racconto indicando nome, cognome, luogo di residenza e contatto telefonico. I testi, in lingua italiana e a tema libero, non dovranno superare le quattro pagine (formato A4, file Word). Sono ammessi racconti editi o inediti, senza limiti di genere. Per ulteriori informazioni: cellulare 327 1371380. Bovindo è uno spazio aperto e inclusivo, dove la scrittura respira, il talento si riconosce e ogni voce trova il suo lettore.


Il silenzio che segue il canto

di Nicola Sguera

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La luna gettava sulla fredda roccia un semicerchio incerto, un frammento di lira sospeso tra cielo e terra. Era la notte che precedeva l’ultima alba, e il chiarore argenteo si insinuava fin dentro la prigione: una grotta scavata ai piedi della collina, un intrico di rocce che la voce del popolo aveva consacrato come l’estrema dimora di Socrate, con le sue tre stanze anguste e la cisterna buia sul retro.
Dentro una di quelle sale, dove l’aria aveva il sapore metallico dell’umidità e della pietra millenaria, il filosofo – condannato a morte per aver corrotto i giovani ateniesi e introdotto nuove divinità – sedeva con la schiena appoggiata alla parete rocciosa, la superficie irregolare che gli accarezzava il logoro chitone. Le corde ai polsi, semplici legacci che avrebbero potuto essere sciolti da un gesto risoluto, non trattenevano affatto la sua anima. Erano solo l’affermazione vuota di potere su un uomo che aveva già scelto liberamente il proprio destino.
Intorno a lui, i discepoli erano immobili, silenziosi, ciascuno perso nel proprio dolore muto. Attendevano l’alba del giudizio, un sole che sarebbe sorto per annunciare l’arrivo della cicuta. Eppure, in quello spazio angusto, Socrate non vedeva fine ma solo un nuovo inizio, il riposo della conoscenza.
Quel mattino, il freddo pungente dell’alba si fece strada tra le fessure irregolari del muro di roccia. Socrate, incurante del gelo e del destino imminente, era intento a pizzicare le corde della lira, dono dell’amico Cebete, un oggetto semplice ma prezioso. Le sue dita, nodose e segnate dagli anni, si muovevano con una delicatezza inaspettata, strappando all’aria umida della cella un lamento sommesso.
Critone, seduto in un angolo, con gli occhi gonfi e il cuore pesante, non riusciva a capacitarsi di quella scena. Il suo maestro, a poche ore dalla morte, trovava ancora conforto e ispirazione in un gesto così terreno, così intimo. Un misto di stupore e commozione profonda gli strinse la gola.
«Perché suoni, Socrate?» gli aveva chiesto, la voce appena un sussurro.
Socrate, senza interrompere la sua melodia, sollevò lo sguardo, e nei suoi occhi, profondi e sereni, brillava una luce che andava oltre ogni comprensione umana.
«Perché ho sognato, Critone, che Apollo stesso, il dio dell’armonia e della luce, mi ammoniva: “Socrate, pratica la musica”.»
Un accordo malinconico risuonò, poi si spense.
«E io, cieco nel mio intelletto, nella mia ostinata convinzione che l’unica musica degna di un filosofo fosse l’austera ricerca della verità, pensavo che intendesse solo un invito a proseguire la mia dialettica. Ora so che la musica non è il contrario della ragione, mio caro, non è il suo opposto selvaggio e irrazionale ma la sua sorella danzante. È la melodia che ordina il caos dell’anima, il ritmo che infonde armonia al pensiero, la risonanza del divino che accorda l’uomo con l’infinito. E in questa notte che precede l’eternità, Critone, ho bisogno di accordare il mio spirito al grande canto dell’universo.»
Aveva cominciato da poco a comporre versi, un compito inaspettato che occupava le sue ultime ore con una singolare urgenza. Non semplici rime, ma favole di Esopo, le antiche narrazioni che insegnavano la virtù attraverso l’esempio. Era un’arte che cercava di mescolare la parola poetica con armonie dolci e severe, degne del solenne e misurato modo dorico.
Ogni nota pizzicata, ogni sillaba scandita, era un tentativo di cogliere l’essenza della favola, di tradurre in musica la saggezza dei racconti, come se in quelle ultime melodie si celasse l’ultimo segreto da svelare, l’ultima verità da rivelare ai suoi discepoli. Lo faceva con una meticolosità quasi ossessiva, un’applicazione che i presenti non gli avevano mai visto in un’attività così apertamente artistica.
«Perché» – diceva, la sua voce risuonava nella piccola cella con una chiarezza sorprendente – «l’anima ha bisogno d’essere ben ritmata, ben accordata. Proprio come una città giusta, non può esistere senza armonia tra le sue parti, senza un ordine intrinseco che ne garantisca la stabilità e la bellezza. È così che il dio Apollo mi ha esortato a praticare la musica, non solo quella delle corde o dei versi, ma quella più profonda che riguarda l’ordinamento interiore dell’essere.»
La musica, per lui, non era solo diletto ma una forma suprema di geometria spirituale, un esercizio costante per l’anima che la preparava all’armonia perfetta, quella che trascende la vita e la morte. Per questo aveva trasformato le favole di Esopo in versi, per purificare e preparare il suo spirito, accordandolo come uno strumento divino.
Ma Socrate, in pochi giorni, era andato ben oltre queste acquisizioni che ne avrebbero fatto un ideale discepolo di Pitagora. Nelle ore di angoscia, nelle notti di solitudine, aveva scoperto le capacità terapeutiche della musica, che penetra nell’anima attraverso i sensi, muove le emozioni e modella il carattere senza bisogno di sillogismi o argomentazioni.
Fece una breve pausa, come per assaporare quel pensiero che cresceva in lui. «Sì, ora la comprendo pienamente – questa musica che precede ogni argomentazione, che rende l’anima pronta ad affrontare ogni dissoluzione, persino l’ultima.»
Il carceriere, fermo sull’uscio, lo ascoltava in silenzio. Era un uomo semplice, abituato alla concretezza dei gesti, al linguaggio ruvido delle guardie e dei condannati. Eppure qualcosa in quella scena lo turbava profondamente. Le dita di Socrate che pizzicavano la lira con calma solenne, le parole che parlavano di armonia e dissoluzione, la serenità assoluta del suo volto: tutto sembrava fuori posto in quel luogo. Stonato, eppure perfetto.
Non capiva se quell’uomo stesse celebrando la vita o preparando la propria morte.
Il carceriere si sentì piccolo, disarmato. Lì dove avrebbe dovuto esserci angoscia, trovava una forma incomprensibile di gioia. In lui nasceva, confusa ma luminosa, la percezione che potesse esistere un altro ordine delle cose, una bellezza più alta degli ordini e delle pene.
I suoi discepoli guardavano il loro maestro in silenzio.
Fedone aveva gli occhi lucidi. «Maestro, anche la musica può educare alla virtù?»
Socrate sorrise. «La musica, quando è scelta con discernimento, porta l’anima a imitare il bello e il buono. Un’armonia ben composta penetra l’anima e ne raddrizza le storture.»
E poi:«Non è forse attraverso il ritmo e l’intonazione che i giovani imparano a vivere rettamente, a temperare le loro passioni, a trovare l’equilibrio della virtù?» disse al giovane Platone, lasciandolo sconcertato.
«E la morte?» chiese allora un altro.
Socrate aveva smesso di suonare. La lira giaceva sulle sue ginocchia, ancora vibrante dell’ultimo accordo sospeso nell’aria. Poi disse, a bassa voce, come se parlasse a se stesso o a un dio invisibile:
«La morte è il silenzio dopo l’ultimo suono. Ma se l’anima è ben accordata, quel silenzio sarà armonico.»
Critone sollevò lo sguardo, interrogandolo in silenzio. Allora Socrate continuò, la voce più ferma:
«Vedi, come in un’armonia dorica, le note non sono mai lasciate al caso. Ogni intervallo, ogni pausa, è disposto secondo proporzione. La vera musica non teme il silenzio, perché lo prepara, lo contiene. Così anche l’anima deve essere accordata: non troppo tesa, perché si spezzerebbe al primo urto, né troppo lenta, perché perderebbe l’intonazione. L’anima deve reggere il peso del tempo e risuonare senza dissonanze.»
Si passò le dita con lentezza sul palmo.
«Quando componiamo un’armonia, sappiamo che non è il singolo suono a fare la bellezza, ma la relazione fra i suoni, la coerenza interna della scala, la tensione risolta. Così, se la vita è un canto, la morte dev’essere la cadenza finale. Non uno spegnersi, ma un compimento della melodia nell’ordine primordiale.»
Restò in silenzio. Poi, quasi sorridendo:
«Sì, la cicuta sarà solo un’ultima pausa. E se avrò intonato bene il mio spirito, il silenzio che seguirà sarà puro. Necessario.»

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