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Criteri di Sindacato sulle scelte imprenditoriali nel Diritto Penale

La Corte di Cassazione e il rigetto della regola di giudizio propria del contesto civile-societario

Il parere legale

Una rappresentazione simbolica delle dinamiche tra gestione d’impresa e responsabilità penale nelle decisioni societarie

L’analisi dei confini tra la discrezionalità gestionale dell’imprenditore e la rilevanza penale delle sue decisioni in caso di dissesto finanziario costituisce una problematica centrale nel diritto fallimentare e societario. Il tema è stato nuovamente affrontato dalla Corte di Cassazione, Sezione V, con la sentenza n. 13299 del 7 aprile 2025, la quale ha ribadito in modo inequivocabile il principio di non applicabilità della regola di giudizio tipica degli ordinamenti societari civili (nota come “business judgment rule”) nel contesto del delitto di bancarotta fraudolenta per dissipazione.

Tale regola, pur essendo funzionale alla tutela degli amministratori contro la paralisi decisionale in ambito civile e risarcitorio, non può essere trasposta nel sistema penale in ragione della diversa ratio e dell’oggetto di tutela. Nel diritto societario civile, l’accertamento si concentra sulla violazione del dovere di diligenza (art. 2392 c.c.); nel diritto penale, l’attenzione è focalizzata sull’accertamento del dolo e sulla lesione effettiva o potenziale della garanzia patrimoniale dei creditori, intesa come bene giuridico tutelato dalla normativa fallimentare.

La Giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il sindacato del giudice penale non può estendersi al merito o all’opportunità economica delle decisioni di management. Le scelte intraprese dall’amministratore, anche se ex post si rivelino irragionevoli, inopportune o produttive di ingenti perdite, rimangono confinate nell’alveo del rischio d’impresa e della responsabilità civile. Il giudice penale non è chiamato a valutare l’efficacia o la convenienza di una strategia aziendale.

La soglia di rilevanza penale viene superata solo quando la condotta gestionale esprime una devianza qualitativa e oggettiva di tale portata da prefigurare la fattispecie di dissipazione fraudolenta. Ciò si verifica quando la decisione o l’operazione non è semplicemente errata per imprudenza o negligenza, ma risulta manifestamente e integralmente incoerente con i fini istituzionali dell’impresa e con l’obiettivo primario di conservazione del patrimonio in funzione di garanzia per i creditori.

Il criterio distintivo adottato dalla Cassazione si basa sulla valutazione della condotta a priori (giudizio ex ante). Non si sanziona il risultato negativo, ma l’azione che, in relazione alle dimensioni aziendali, alla sua complessità e al contesto economico in cui opera, appare abnorme o macroscopica. La dissipazione è definita come l’impiego dei beni sociali in modo eccentrico e distorto rispetto alla loro funzione di garanzia, attraverso scelte consapevoli che sono radicalmente incongrue con le reali e oggettive esigenze dell’azienda.

Questa impostazione distingue nettamente la bancarotta fraudolenta per dissipazione dalla bancarotta semplice per operazioni imprudenti (art. 217 L. Fall.). Quest’ultima sanziona l’amministratore che, pur agendo per scopi aziendali e con la finalità, seppur mal riposta, di perseguire l’interesse d’impresa, compie scelte avventate e negligenti. La dissipazione, al contrario, presuppone che i beni siano stati impiegati per finalità estranee all’impresa, spesso personali o voluttuarie dell’amministratore, come avvenuto nel caso specifico sottoposto al vaglio della Corte. La spesa in tali casi non rientra nella logica, pur imprudente, del management, ma integra un utilizzo dei fondi in palese contrasto con la causa sociale.

L’elemento soggettivo richiesto per la configurazione della bancarotta fraudolenta è il dolo, anche nella forma eventuale. La giurisprudenza richiede l’accertamento che l’agente abbia non solo previsto come possibili gli esiti pregiudizievoli e il conseguente danno alla garanzia dei creditori, ma abbia anche accettato il verificarsi di tali conseguenze, agendo cionondimeno. La condotta deve porsi in un contrasto drastico e irrimediabile con la funzione di conservazione del patrimonio sociale. Solo in presenza di tale manifesta e oggettiva devianza dalla logica imprenditoriale, e del corrispondente elemento psicologico, il giudice penale è legittimato a intervenire, mantenendo rigorosamente il confine tra la censura dell’errore economico e la repressione dell’illecito penale. La sentenza ribadisce, pertanto, un principio fondamentale per la difesa degli amministratori, delimitando con precisione il campo d’azione del diritto penale all’abuso fraudolento della discrezionalità gestionale. La mancanza di dolo o la dimostrazione della coerenza della scelta con il fine aziendale, benché imprudente, è l’unica via per circoscrivere l’intervento sanzionatorio.

e-mail: avv.mimmolardiello@gmail.com  
sito: www.studiolegalelardiello.it

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