Come abbiamo rimarcato più volte, dai ricettari medievali pervenuti fino a noi emerge un quadro sostanzialmente unitario della cucina europea. Intendiamoci: della cucina di corte e del Basso Medio Evo, perché prima del Duecento (XIII secolo, a scanso di equivoci) non abbiamo niente, o quasi. Tracce di gastronomia e cucina sono infatti rilevabili in opere di dietetica e medicina. Dietetica e medicina che, beninteso, continueranno a lungo a rimanere strettamente connesse, intricate, con l’arte coquinaria e con l’arte di organizzare e servire i piatti, e che già l’Antichità aveva conosciuto. Il Medio Evo ci aggiunge una distinzione tutta nuova: quella, tutta cristiana, della più o meno rigida distinzione fra giorni di grasso e giorni di magro, peculiare versione dei tabù alimentari dell’Ebraismo e dell’Islam, che riguardavano invece, in modo radicale, veri e propri alimenti proibiti (ma anche metodi di preparazione degli alimenti, come il dissanguamento degli animali vivi per poterne utilizzare le carni, che devono essere sempre dissanguate per essere kasher o halal, due termini che nella cultura ebraica ed in quella islamica designano, insieme, “appropriatezza” e “purezza”, e nel caso dell’Ebraismo anche della giustapposizione di vari tipi di alimenti, che si estende addirittura al pentolame ed alle stoviglie: carne e latte o derivati del latte, latticini burro e formaggi, non possono essere cucinati insieme, né comparire sulla stessa tavola, e persino le pentole in cui vengono cotti o i piatti in cui vengono serviti devono essere riservate all’uno o all’altro degli alimenti; anche Ebraismo ed Islam conoscono comunque periodi “penitenziali” di digiuno). Il cristiano mangia tutto, perché tutto proviene da Dio. E lo fa anche per marcare una differenza con il rigido formalismo di correnti ebraiche – i Farisei, per esempio – con le quali Gesù aveva polemizzato. Nel Vangelo di Marco c’è un passaggio esplicito ed illuminante: “E [Gesù] disse loro: ‘Siete anche voi privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?’. Dichiarava così mondi tutti gli alimenti”. Diverso è il caso dei digiuni rituali (che peraltro non sono mai digiuni assoluti, né per i cristiani né per israeliti o musulmani), che hanno carattere penitenziale. O dei “giorni di magro”, nei quali era vietato consumare carne e, in certi casi, prodotti di origine animale (uova; latte formaggi ed altri derivati del latte, con la singolare eccezione del burro, che fu a volte considerato un condimento e grasso di cottura “vegetale”, sostitutivo dell’olio d’oliva, non ovunque disponibile, in opposizione a lardo sugna e strutto, i grassi animali). Per buona parte del Medio Evo, i giorni di magro (anche se non di magro stretto) superarono un terzo dei giorni dell’anno: la Quaresima, i venerdì, le vigilia di importanti festività, e per vari periodi anche i mercoledì. Si impose quindi la elaborazione di una gastronomia (non solo cucina) alternativa, senza prodotti animali. Vegetariana ma non vegana, secondo l’ottica d’oggi, perché in luogo delle carni e dei prodotti animali trionfavano il pesce ed i prodotti delle acque, molluschi, crostacei ed animali al pesce assimilati (come le tartarughe). Questa cucina doveva contemperare il precetto dell’astinenza dalle corni con il lusso e lo sfarzo obbligatori delle corti: sia della nobiltà che degli alti prelati. Caso a parte, la cucina dei monasteri, che escludeva quasi del tutto, indipendentemente dai periodi dell’anno o della settimana, le carni (e consentiva casomai quella degli uccelli, che per la loro natura aerea erano sentiti come alimenti più spirituali), ed esaltava vegetali e pesci. Ma anche la cucina dei monasteri venne in soccorso dei cuochi del mondo, fornendo suggerimenti. Abbiamo così nei ricettari che ci son pervenuti una cucina duale: che propone, oltre a preparazioni totalmente differenti, piatti di aspetto simile ma dal gusto radicalmente diverso: un dessert per giorni di magro stretto è per esempio una crostata abbondantemente zuccherata in cui, in luogo della crema o della ricotta, c’è la bianchissima carne d’anguilla. Molto minore – ma non assente – è la caratterizzazione che potremmo definire, forzando un po’, “nazionale”. Che a volte si riflette nella intitolazione (quando c’è) dei piatti: tenendo presente che le corti sono cosmopolite, e del cosmopolitismo anche a tavola si fanno un vanto. Talvolta però l’intitolazione trae in inganno: il brodo saracenico, per esempio, presente in uno dei primi trattati medievali, il Liber de coquina (Italia meridionale) non documenta una influenza araba sulla cucina italiana, come da alcuni è stato ritenuto, ma indica un colore scuro, come quello della carnagione dei Mori o Saraceni (stessa cosa per il grano saraceno), dato che presenta due ingredienti fondamentali vietatissimi ai musulmani: vino e carne di maiale. Giuseppe Mazzarino
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